Ripreso il viaggio in direzione del “dito di Galilea”, una stretta porzione di territorio che ricorda un “alluce” incistato tra i monti del Libano e la Siria, per raggiungere Safed si svolta a sinistra e si comincia a salire. Il paesaggio cambia ancora e quasi all’improvviso si transita accanto ad abetaie piantumate, vere e proprie macchie di verde in forte contrasto con il circostante terreno brullo e pietroso. La cittadina si trova a 900 metri d’altezza, praticamente in mezzo ad un nulla maculato di verde intenso.

Safed (Zfat) è una delle quattro città sante dell’ebraismo e, manco a dirlo, è fatta di contrasti. Avevo letto la sua storia lunga due millenni, ma, come già altrove e in altre occasioni, andarci di persona, camminare per quei vicoli e vedere quegli antichi edifici, è un po’ come riscoprirla a tre dimensioni. Fin dal XVI secolo la città è sede di studi della Cabalah, la dottrina esoterica ebraica che si occupa dell’interpretazione simbolica del senso intimo dei testi sacri, e la quantità, nonché la varietà, delle tradizioni che rappresentano, la presenza di ebrei ultraortodossi lo sta a testimoniare. Non vi sono tuttavia solo loro, anzi questi convivono pacificamente con una folta colonia di artisti e artigiani, che la rendono vivace nei colori e ne compensa con essi la grigia austerità, alleggerendola. Il colore blu incornicia case e ringhiere e per questo viene indicata anche come la “città blu”. Camminando attraverso vicoli silenziosi si incontrano botteghe artigiane, atelier di artisti, per lo più pittori e scultori, ma anche diverse sinagoghe e yeshivoth, le case di studio dove i Chassidim, i pii ebrei, trascorrono molta parte delle loro giornate a studiare e a discutere sui testi sacri.

Nel quartiere antico si nota lo stile ottomano e l’eco della presenza araba. L’antica moschea è stata trasformata in una galleria d’arte, così come il giardino su cui si affaccia è circondato da botteghe artigiane. La compresenza di tante “anime” dell’ebraismo, da quello ultrareligioso a quello degli spiriti laici e alternativi, conferisce a Safed un’atmosfera tutta particolare. In quel luogo perfino i religiosi, altrove spesso indifferenti a tutto ciò che li circonda, possono essere gentili e ospitali… Artisti e artigiani ti accolgono con cordialità nelle loro botteghe e, porgendoti una tazza di the o di caffè turco, sembrano genuini nel prodigarsi a spiegare il senso delle loro opere. Certo che apprezzerebbero, qualora se ne comprasse una, ma appare evidente che comunque sono già contenti che si sia interessati ai loro lavori e se fate una qualche domanda, dovrete poi essere pazienti per ascoltare per intero le loro argomentazioni. Devo peraltro dire che ho trovato talvolta anche interessante sentir spiegare le opere, pittoriche o scultoree, dai loro stessi autori.
Safed è anche città di produzione di formaggi. Bè non si creda si possa trovare qualcosa di simile a quelli cui i nostri palati sono abituati, ma si deve tuttavia apprezzare lo sforzo… Da quando l’ho conosciuto, non manco mai di fermarmi a mangiare una focaccia, ogni volta condita in modo diverso ma sempre gustosa, presso un chiosco gestito da ebrei yemeniti che propongono le loro tradizioni culinarie; e la prima shakshuka che io ricordi, un piatto a base di uova cotte in un sugo di pomodoro speziato, posto spesso su un letto di melanzane precedentemente grigliate, credo di averla gustata proprio tra quei vicoli.
Safed rimase un minuscolo villaggio fino al momento in cui fu occupata e governata dai Romani. La rivolta del 66 d.C. contro l’occupazione romana a Safed era capeggiata daYosef ben Matityahu, meglio noto come Giuseppe Flavio, prima di diventare cittadino romano e praticamente l’unico vero storico a scrivere in modo minuzioso tutte le vicende di quegli anni in quei luoghi. La città fu conquistata dai Crociati e poi dal Saladino nel 1188, sopraffatto a sua volta dai Templari, che vi costruirono una fortezza, passata poi ai Mamelucchi dopo il 1266. Divenne importante quando la sua comunità ebraica fu rinforzata da quegli ebrei che, in fuga dalla Spagna a partire dal 1492, quando i cattolicissimi re di Spagna li scacciarono, si rifugiarono lì.

Tra di essi vi erano alcuni eruditi, quali Moshé Cordovero, Isaac Luria, o Josef Karo, studiosi cabalisti che ancora oggi ci parlano e merita ascoltarli. Alcune tra le tante sinagoghe risalgono a quegli anni e sono ancora attive e visitabili. Fa una certa impressione, entrandovi, pensare che è lì da secoli, su quelle sedie antiche, che vecchi saggi consumano gli occhi e la loro intera vita per ricercarne il senso dentro le pieghe delle Sacre Parole; per approfondire, formulare pensieri, le molte domande e le poche e precarie risposte sull’intero scibile umano.
Nei secoli successivi epidemie, terremoti e conflitti con la componente araba causarono il declino della città. L’intera comunità ebraica dovette evacuarla a seguito dei moti arabi del 1929. Durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948-1949, toccò agli arabi doversene andar via. Tra di essi vi era anche l’attuale Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). Con la nascita dello Stato d’Israele, Safed riprese il suo ruolo di centro di studi cabalisti. Negli anni ’60 e ’70 la città fu più volte bersaglio dei terroristi palestinesi, che causarono decine di vittime e nel luglio 2006, Hezbollah dal Sud-Libano colpì Safed con diversi razzi. Oggi le uniche testimonianze di quel passato sanguinoso e turbolento sono i resti della fortezza dei Templari, e, più recenti, un vecchio posto di polizia britannico crivellato di colpi di armi da fuoco, nonché un rudimentale monumento alla “davidka”, un mortaio artigianale, il cui vero potere di deterrenza stava tutto nel gran botto che faceva, costruito alla buona dagli israeliani nel corso della prima guerra arabo israeliana del 1948-49. Nel visitarla non sembra che Safed possa aver avuto un passato tanto turbolento e non di rado sanguinoso. La serenità che regna nelle sue strette vie, quasi tutte interdette ai veicoli, induce alla calma: il conoscerne la storia, porta però a riflettere sul senso ultimo delle cose umane e divine.
Ma poi viene il momento di andare via, per rientrare nel mondo “normale”, ammesso che a un simile termine, applicato a quella terra tutta, si possa attribuire un senso.