Via dei Legionari – Parte 6: I gemelli e Libero

I gemelli

Racconta mia madre che quando sono nati i gemelli Iside e Palmiro, figli della Pina e dell’Erminio, nessuno si aspettava che fossero due, neppure la levatrice se n’era accorta. C’era pronto un piccolo lettino e qualche indumento per uno solo. La prima culla di Iside fu quindi un cassetto del comò, liberato in fretta e furia della poca biancheria che conteneva. Ci fu  una gara a recuperare nei grandi solai un secondo lettino, a pulirlo, riverniciarlo e fornirlo dell’occorrente.

La Pina è la più allegra di tutti gli abitanti della via. La sua presenza mi dà serenità perché, a differenza di mia madre, riesce a sdrammatizzare e a sorridere nelle difficoltà.

Noi bambini veniamo spesso rimproverati dagli adulti per il chiasso, ma la Pina non ci rimprovera mai, anzi anche lei canta e ride ed è dalla nostra parte. In estate parte al mattino e va in spiaggia con i gemelli, miei coetanei, e io li invidio perché devo stare a casa a fare i compiti o aiutare nelle faccende domestiche e solo nel pomeriggio posso raggiungerli.

 

Libero

Alle cinque del pomeriggio la sirena della Siai-Marchetti annuncia che il turno di lavoro è finito e si torna a casa. Di nuovo le strade si riempiono di operai con la tuta blu, la maggior parte in sella alla bicicletta. Inizia il solito rituale: cambiarsi d’abito, lavarsi e scolgere un altro tipo di lavoro. C’è chi, come Erminio, indossa una casacca bianca e va a fare il cameriere nella vicina locanda, per arrotondare un po’ il salario; chi come Alfonso fa diventare quasi nuove vecchie credenze, tavoli e sedie e le vernicia di bianco e di azzurro. Fuori dalla sua porta, nel piccolo vano semichiuso che ha la fortuna di avere c’è un forte odore di vernice.

Edoardo invece fa lavori di falegnameria e aggiusta tutto ciò che fa parte degli arredi modesti delle famiglie: sedie, tavolini, quadri, giocattoli, ante etc… Ho sempre associato il laboratorio di Edoardo a quello di Papà Geppetto: doveva proprio essere così: piccolo, pieno di segatura e assi di legno odoroso di resina. Ancora oggi se penso al libro di Collodi rivedo quel piccolo laboratorio.

Altri spaccano la legna in cortile o portano su dalle piccole cantine, secchi di carbone comprati dal Carbunin.

Per Libero la sirena, quel giorno, è suonata tristemente alle quattro.

I bambini giocano rumorosamente in cortile, come al solito, quando arrivano due signori della ditta e salgono al secondo piano. In breve tempo c’è un andirivieni e un gran parlare sottovoce delle donne del cortile. Adriana, la moglie del vinaio, si mette le mani nei capelli, Anna piange e si asciuga le lacrime col grembiule soffiandosi rumorosamente il naso, la Pina, che è un po’ sorda chiede spiegazioni perché non riesce a capire tutto quel movimento.

In fabbrica hanno già capito che per Libero non c’è più niente da fare. A quarantaquattro anni è caduto all’improvviso davanti alla macchina su cui lavorava e non si è più ripreso. Con un’auto lo trasportano fino a casa e due compagni di lavoro, uno tenendolo per le braccia e uno per i piedi lo portano al secondo piano dove abitava.

Noi bambini non abbiamo capito niente di tutto quel trambusto, ma alla sera tutti riuniti nei due locali della sua abitazione a dire il rosario, avevamo capito che era morto e che quel corpo disteso sul letto, col vestito delle grandi occasioni, la camicia bianca e la cravatta, ben lavato e pettinato come per andare a una festa, non si sarebbe più mosso da lì. Non avevamo mai visto la morte ma avevamo capito tutto e nel nostro rifiuto di accettarla riuscivamo anche a ridere e fare gli stupidi, prendendoci gli scappellotti dai nostri genitori.

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