L’androide

“Lui, ma lui dov’è?”

Un improvviso rumore assordante, seguito da un accecante bagliore, spalanca la portafinestra con una gelida ventata; nel vano illuminato lo vedo materializzarsi.

Nel silenzio spettrale, tutti gli ospiti sono immobilizzati nei gesti che stavano compiendo. Vengo attratta da lui che, con gesti suadenti e occhi magnetici, mi invita a raggiungerlo. Ad ogni mio passo in avanti, lui arretra verso il centro del giardino. Abbagliata da fasci di luce verde emanati da un oggetto simile ad una enorme trottola, perdo quasi l’equilibrio. Alex, con gesto repentino mi sorregge tra le sue braccia mentre uno dei raggi ci avvolge, risucchiandoci all’interno. Stordita e, inconsapevole di ciò che sta avvenendo, mi sento fluttuare nell’aria. Alex, senza dire una parola, mi afferra una mano accompagnandomi a sedere su una poltroncina con braccioli, davanti ad un grande teleschermo fluorescente.  Sempre più smarrita, lo osservo maneggiare interruttori, finché dal grande schermo inizia la proiezione di strane immagini. Un maestoso leone, dalla folta criniera al vento, corre nella Savana. Ad ogni elegante falcata, man mano che si allontana, l’animale regredisce diventando cucciolo fino a sparire dietro gigantesche piante di bao-bad. Gli alti alberi, durante lo scorrere delle immagini, rimpiccioliscono fino a diventare semi che spariscono nel terreno. Lo strano spettacolo prosegue con grandi masse di ghiaccio galleggianti che velocemente tornano sulle vette da dove, poco prima, erano scivolate nell’Oceano. E ancora, grossi salmoni che, con salti acrobatici, tentano di risalire i fiumi per andare a depositare le uova nel mare ma che scivolano all’indietro diventando loro stessi migliaia di minuscole cellule.

Guardo interrogativamente Alex che nel frattempo si è seduto accanto a me. Mi fa segno di continuare ad osservare il monitor dove vedo noi due seduti sul divano, la prima sera che venne a casa mia; poi mi indica un grande specchio in alto che riflette una giovane coppia.

 «Quelli siamo noi due ora.»

“Possibile che siamo tornati indietro nel tempo?”

«Siamo arrivati, benvenuta sul mio pianeta: MUSICMIX.»

Pigia un pulsante e un gran portellone si alza silenzioso. Un piano liscio ci fa scivolare fino a terra;  lo scivolo si ritrae, sul portellone che si rinchiude leggo: DISCOVERY.

Mi guardo attorno: il nulla. Tutto piatto di un biancore surreale. Sbigottita realizzo d’essere su un pianeta senza vita. Guardo Alex terrorizzata per quello che sta per dirmi. Mi prende le mani e appoggiandosele su quel cuore senza battiti: «Siamo sul mio pianeta senza storia, senza tempo. Sono l’unico sopravvissuto ad una collisione fra due galassie che ha dato origine a questo piccolo asteroide, condannandomi  al tempo che si è fermato. Vagavo lungo la via lattea quando, non so per quale fortuito errore, sono stato catapultato sul tuo pianeta a me sconosciuto. Mi sono inserito nella tua vita, provando emozioni sconosciute. Ho in mente un grande progetto: ridare vita a questo posto».

Ho creduto si trattasse di uno scherzo o  di un sogno ma con il tempo mi sono resa conto di vivere una realtà sconvolgente.

Questa è la mia nuova vita.

Alex passa buona parte del tempo chiuso nella navicella che, ormai, è diventata anche la mia dimora, intento a studiare sul suo programma. Non so cosa studi, libri da consultare non ce ne sono; armeggia con tasti, interruttori e strani oggetti simili ai nostri PC. Io passo il tempo a girovagare sola, nel vuoto.

A volte mi porta con sé nella sua navicella spaziale ad esplorare nello spazio. Lo osservo pilotare con destrezza mentre schiva piccole meteore e tento di apprenderne le manovre.

«Andiamo su Venere?» propongo.

«Su Venere è impossibile sopravvivere per la temperatura altissima; è il pianeta più caldo del sistema solare».

«Se andassimo su Marte?» insisto.

«Assurdo, sulla sua superficie vi sono deserti sabbiosi e grossi crateri causati dalla caduta di meteore. Sarebbe troppo pericoloso».

Rinuncio sempre più spesso a questi viaggi nel nulla.

Ultimamente nel mio inutile vagabondare, ho la sensazione di non essere sola; avverto delle presenze, temo siano fissazioni che mi condurranno alla pazzia.

Seduta per terra, avvolgendo le ginocchia, sguardo fisso verso quell’orizzonte che non esiste, all’improvviso sono colpita in fronte da un sasso nero, grosso quanto una noce che cade ai miei piedi.

“Questa non è fantasia” penso sfiorando il viso con un dito che ritraggo sporco di sangue.

Mi stendo supina con occhi semichiusi e intravvedo  qualcosa di metallico che mi si avvicina, mi  scruta e scivola  via. Poco dopo si palesano  ben due soggetti e sento un gelido sfiorare che mi  lenisce la ferita. Balzo in piedi e le due presenze svaniscono.

“Non è stata un’allucinazione” realizzo toccando il bernoccolo anestetizzato dal gelo.

Pur vagando nella spasmodica ricerca dei due esseri, per lungo tempo non li ho più rivisti. Escogito un altro sistema; mi stendo immobile come la prima volta che sono comparsi e non devo aspettare molto quando li vedo riapparire. Li osservo bene. Uno ha la forma di piccolo robot alto circa due spanne: testa tonda come una palla, due fessure luminose per occhi, pseudo mani: una a pinza l’altra a lama dentata, gambe inesistenti come inesistenti sono naso e bocca. Nella fantomatica “mano” stringe un altro sasso nero. Scivola come se fosse su ruote invisibili.  L’altro, simile ad un cagnolino, ha un muso sottile con una pallina brillante all’estremità, sei rigide zampette di metallo, una fessura per bocca da dove spunta una lamina lucente. Mi stanno accanto scrutandomi. Con delicatezza tendo le mani sfiorandoli ambedue con una lieve carezza ottenendo la loro fiducia. Non fuggono, non mi temono e con il tempo mi  affiancano durante le mie passeggiate. Io parlo con loro e racconto le mie pene, loro con suoni incomprensibili  mi rispondono. Ho dato loro un nome: RHUDO al robottino, SCHIBA a quella specie di cagnolino.

Da tempo non si fanno vedere e mi sono accorta che questo succede quando Alex è nei paraggi.

Riprendo il mio girovagare senza senso.

Porto sempre con me l’unico oggetto che mi rammenta gli affetti che ho lasciato sulla Terra: la castagna che mi aveva donato la mia amica quel giorno; ma quale giorno? La tengo al polso dopo averla bucata infilandole un cordoncino.

Seduta a terra, la osservo e l’accarezzo, mentre una lacrima si poggia sul frutto.

Improvvisamente, da quel forellino, sbuca un piccolo lombrico rosso punteggiato di nero. Il minuscolo essere vivente si dimena, si sgranchisce e con uno scatto cade per terra. Lo seguo mentre striscia cercando rifugio nel sottosuolo finché lo vedo scomparire. Memorizzo il punto dove è caduto e presa dall’euforia, ad intervalli, mi reco sul posto per vedere se succede qualcosa. Mi sorprendo quando vedo che, dal punto dove l’animale è sparito, compare del terriccio smosso. “Se è sopravvissuto, significa che ha trovato l’umidità di cui necessita.”  Da reminiscenze scolastiche, rammento che pur essendo ermafrodita, è comunque necessario che si accoppi affinché nascano altri suoi simili.  “Ma quel rosso così accentuato e quei pois neri? I vermi non sono sempre stati rosa?” Fantastico che là sotto stia nascendo una famiglia laboriosa e che rimuovendo il terreno, aumenti  la fertilità del suolo dando vita alla vegetazione.

Quella che poteva sembrare un’ illusione si trasforma in certezza quando un piccolo germoglio fa capolino trasformandosi in breve tempo in una pianta; quasi nell’immediato grossi fiori rosa e rossi lasciano spazio a lucenti frutti color marrone grossi come mele.

Davanti a quello spettacolo Alex, estasiato, tende una mano verso l’albero, ne stacca un frutto, lo addenta e cade a terra immobile.

All’improvviso compaiono i miei due amici di sventura che, dopo essersi soffermati brevemente ad osservare Alex immobile steso per terra, mi spingono via obbligandomi a correre; la corsa si interrompe quando si apre una voragine che ci inghiotte catapultandoci  in un altro mondo.

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