Nel kibbutz Ma’agan, situato sulle rive meridionali del lago, avevo conosciuto un uomo ormai anziano, ma ancora vigoroso. Non ricordo il nome, il cognome era Stern ed era di origini tedesche. Espressione severa, amara. Un tipo scorbutico che mi imposi di tollerare solo dopo aver visto il numero infame marchiato sul suo braccio sinistro.
Un giorno, meno burbero del solito, mi fece salire sul trattore che stava guidando e insieme andammo nei campi del kibbutz che si trovavano lungo il Giordano appena discosti dal lago. Fu lui ad indicarmi quel modo, all’epoca rivoluzionario, di irrigare “a goccia” le piante da frutto. Un tubo di gomma nera correva da una pianta all’altra e, all’altezza di ciascun tronco, vi era stato praticato un foro, da cui usciva, senza interruzione, pochissima acqua, goccia dopo goccia. Stern mi spiegò che quella che non veniva assorbita dalle radici sarebbe stata raccolta da una canalizzazione predisposta sotto le piante stesse prima della loro piantumazione, così da poterla riutilizzare. Semplice e geniale. Con Stern parlavamo in italiano e ritenni fosse quella la ragione principale per la quale tutto sommato era ben disposto verso di me. Scampato ai campi di sterminio, aveva soggiornato per diversi mesi in Italia in un centro di raccolta di profughi, prima di riuscire a trovare il modo di raggiungere, clandestinamente, la Palestina, all’epoca ancora sotto mandato britannico. In quei mesi aveva imparato la lingua italiana ed io, in tutta evidenza, rappresentavo un modo per tenerla viva nella sua memoria. Non faceva cenno al suo passato, se non a quel suo soggiorno forzato in Italia; non parlava della sua famiglia. I rari discorsi erano sul presente di allora, su ciò di cui si occupava al kibbutz. Nemmeno lì aveva relazioni regolari con gli altri membri. A me, su di me, non faceva domande ed ero io che cercavo di farlo parlare. Allora rispondeva in quel suo italiano da troppo tempo non frequentato, ma con il quale voleva riprendere confidenza. Per il resto era taciturno e solitario, chiuso nella sua tragedia. Tornai a trovarlo negli anni successivi, ma poi finì male.

Fu a causa della partita di basket giocata a Varese tra la squadra locale, l’Emerson, e il Maccabi Tel Aviv nel marzo del ‘79, durante la quale un folto gruppo di ultrà neonazisti inneggiò ripetutamente a Hitler e alle camere a gas, per provocare la squadra israeliana. La notizia fece il giro del mondo e in Israele l’impressione fu grande. Quello stesso anno tornai a trovare Stern. Era davvero anziano e mentalmente provato. Quando gli dissi che a quella partita assistei anch’io, qualcosa di sbagliato e confuso si insinuò nel suo cervello e da quel momento prese ad evitarmi. Sarebbe morto di lì a pochi mesi e a me rimane il rammarico di non essermi potuto congedare da lui come avrebbe meritato. Negli anni successivi ebbi più volte occasione di passare nei pressi di quel kibbutz, ma solo una volta, di recente, decisi di entrarvi di nuovo per una visita. Notai che vi erano stati apportati molti cambiamenti, che molti alloggi apparivano disabitati ed era stato costruito un resort per i turisti, per lo più israeliani che volevano trascorrere le vacanze sul lago. Uguale, invece, trovai l’accoglienza asciutta e cordiale che ricordavo. L’incontro con due persone, una donna sui cinquant’anni e un uomo all’apparenza un po’ più anziano, mi fece riandare con la memoria e con le emozioni ai tempi del mio soggiorno in quel luogo durante i miei vent’anni. Quattro chiacchiere per dire quando e come mai fossi stato lì. Loro erano lì già allora, lì erano nati e cresciuti, ma erano troppo giovani per ricordarsi di me. Si ricordavano invece bene del signor Stern, sorpresi che lo avessi conosciuto anch’io, ma non della descrizione che feci loro del suo carattere e di come la nostra conoscenza sia andata a finire. Poi mi spiegarono, proseguendo un po’ in inglese, un po’ in ebraico, come negli anni l’organizzazione interna avesse subito dei cambiamenti pratici, conseguenti a quelli dei principi ideologici. La rigida applicazione dei principi che avevano ispirato il movimento dei kibbutzim a inizio ‘900, non attirava più molte persone a viverci. Inoltre, molti tra i giovani, una volta partiti per il servizio militare, poi non tornavano, preferendo la vita “di fuori”. Così, per sopravvivere, i kibbutzim dovettero rivedere i loro principi di convivenza, nonché accettare una maggiore apertura verso l’esterno.
Ma’agan a quel tempo era un piccolo kibbutz, di dimensioni inferiori alla media. Niente a che vedere con quello vicino, Degania, che invece era il più affollato, nonché il primo ad essere stato costruito da coloni sionisti est europei, su un terreno acquistato dal fondo nazionale ebraico da una famiglia di Beirut di origini persiane, quando tutte quelle terre erano parte dell’Impero Ottomano. Come potete capire, le cose erano già complicate fin da allora… Fino a circa metà degli anni ’70 la classe politica, a grande maggioranza laburista, era composta da una rappresentanza decisamente più che proporzionale di appartenenti al mondo del kibbutz. Degania fu la culla di alcuni personaggi che diverranno famosi all’interno del futuro Stato di Israele, tra cui politici, poeti e soldati come Moshe Dayan, il secondo nato in quel kibbutz, che molti ricordano per via di quel suo occhio bendato. Vivevano di agricoltura e di industria conserviera.
