Di nuovo sulla statale 90, direzione nord. Ricordo che almeno fino a tutti gli anni ’70 gli autisti della “Egged”, le autolinee di Stato, le uniche operanti prima dell’entrata in servizio di mezzi appartenenti a società di trasporto privato, avevano, proprio a fianco del loro posto di guida, un mitragliatore “uzi”. Notavo come ad ogni fermata scrutassero i passeggeri in attesa alle fermate. Mi chiesi più volte se fosse nelle loro facoltà impedire a qualche elemento sospetto (in base a quali criteri?) di salire a bordo. Del resto, gli assalti ai pullman, soprattutto a quelli che viaggiavano in zone lungo i confini, in quegli anni erano eventi possibili. Anche i tanti militari che si trasferivano da un luogo all’altro con i mezzi pubblici tenevano il caricatore inserito nei loro fucili. Molti di essi, peraltro, preferivano spostarsi facendo l’autostop, che in quegli anni era un mezzo comodo e veloce per muoversi, soprattutto in località meno servite dalle autolinee. Perfino sui giornali quotidiani si invitavano i lettori a offrire passaggi ai soldati.
Oggi non si assiste più a nulla di tutto questo, niente mitragliatori, pochi autostop. Oggi la percezione di sicurezza è decisamente più elevata e poi si viaggia prevalentemente in auto. Nonostante ciò, in quelle zone a ridosso del Libano e delle Alture del Golan, mi prende sempre un sottile senso di inquietudine, che mi guardo bene dal trasmettere a coloro che sto accompagnando in quei viaggi. A loro, inconsapevoli, evito di dire in anticipo (spesso aspetto di parlarne a fine giornata, una volta tornati fuori da quei territori) di quanto precaria possa talvolta essere la calma e quanto apparente il clima bucolico che pervade quei luoghi. Kiryat Shmona, la prima cittadina che si incontra, già nel suo nome, che significa “città degli otto” in ricordo delle otto persone uccise nel corso di un attacco arabo, dà il via a una leggera ansia, cui credo solo chi ci abita può nel tempo abituarsi.

Nasce come campo di accoglienza per i profughi ebrei dopo il 1948, poi dotato di infrastrutture e di abitazioni in muratura, che ricordano, in scala minore e in peggio, quegli orrendi condomini popolari sovietici anni ‘50. Oggi sembrano quasi totalmente disabitati, sostituiti da villette con giardino o edifici comunque decisamente più decorosi. La vita dei suoi abitanti non è mai stata facile. La città fu attaccata da terroristi palestinesi provenienti dal Libano, causando decine di morti. Negli anni seguenti le furono lanciati ripetutamente contro, quasi ogni giorno, razzi Katjusha sparati prima da parte di militanti palestinesi e poi di miliziani appartenenti all’Hezbollah libanese, il “partito di Dio” sciita filoiraniano che occupa il sud del Libano, facendone, in pratica, uno Stato nello Stato. Razzi caddero poi a migliaia nel 2006, durante lo scontro aperto tra lo stesso Hezbollah e l’esercito israeliano. Di suo, peraltro, la città è economicamente molto dinamica. Oltre ad una agricoltura fiorente, vi hanno sede diverse imprese di produzione di apparecchiature elettroniche e tecnologiche. Ancora più a nord si trova Metulla, un piccolo centro sonnacchioso e anonimo, appoggiato direttamente sul confine libanese e quanto si è descritto al riguardo della precaria tranquillità di Kiryat Shmona, vale ancor più per Metulla. Di quella brevissima visita ricordo in particolare il sapore, buonissimo, del pane ancora caldo di forno, servito in un piccolo ristorantino arredato in stile moresco.
Appena superato il centro di Kiryat Shmona, si infila la statale 99, sulla destra, a est, dirigendosi verso il Monte Hermon e si entra, così, nella parte più settentrionale delle Alture del Golan. Tradizionalmente quello è il territorio dell’antica tribù biblica di Dan, una delle “dodici” del regno di Israele e a ricordarcelo è il nome del kibbutz che si trova di lì a pochi chilometri. Anche qui si può incontrare gente cordiale e asciutta che parla con te come se fossi un vecchio amico visto l’ultima volta appena il giorno prima. Ma a indicare l’ingresso nel Golan, regione montuosa siriana conquistata militarmente da Israele nel 1967 e unilateralmente incorporata nel suo territorio, sono i numerosi cartelli gialli disseminati lungo tutta la strada. Da entrambi i lati questa è affiancata da filo spinato e quei cartelli ne chiariscono senza mezzi termini la ragione: “Attenti alle mine”! Si viaggia, infatti, tra i campi, minati dall’esercito siriano, che in tal modo tentava di ostacolare l’avanzata israeliana.

Stavolta l’inquietudine e un vago senso di allarme compaiono anche sui volti dei miei compagni di viaggio. Ogni volta sdrammatizzo e rassicuro e infine, tutti comprendono che non vi è alcun motivo di allarme, che è la normalità di questi luoghi e infine che… basta non uscire dalla striscia di asfalto…! Il paesaggio cambia e si torna a salire tra curve e scorci di verde. La vetta dell’Hermon rimane ancora nascosta e bisognerà andare molto più in alto, dove d’inverno si va a sciare, per poterla scorgere. Intanto si giunge a Banias.
La riserva naturale di Banias include due siti archeologici, una delle sorgenti del Giordano e alcuni brevi percorsi a piedi tra corsi d’acqua ombreggiati da una rigogliosa vegetazione. Vi si trova anche una cascata, ma meglio non dire che è la più alta di Israele, poiché ciò creerebbe, soprattutto nel visitatore europeo, aspettative che verrebbero poi frustrate alla vista della modestia delle sue reali dimensioni, di poco più di una decina di metri.

Tuttavia, è bella, in particolare a inizio primavera quando le nevi dell’Hermon si sciolgono e l’acqua è più abbondante; rilascia una gradevolissima frescura e soprattutto è sorprendente. Se dalle nostre parti, in Italia, sarebbe giusto una piccola graziosa cascatella, tra le alture del Golan e, diciamolo, in tutta quella piccola parte di mondo, può perfino giganteggiare. Il nome Banias deriva dal dio greco Pan, divinità delle montagne e della vita agreste. Nei pressi di una delle sorgenti che formano il fiume Giordano, che sgorga dalla roccia, vi sono i resti di un tempio a quella divinità dedicato, voluto dai sovrani della dinastia tolemaica nel III secolo a.C. Con una passeggiata di una quarantina di minuti, invece, si possono raggiungere le rovine dell’antica Cesarea di Filippo, fatta edificare da Filippo il Tetrarca, figlio di Erode il Grande. Filippo diede alla città il nome di Cesarea, in onore dell’imperatore Tiberio, il cui nome completo era Tiberio Giulio Cesare Augusto. È costruita sopra un preesistente insediamento, anch’esso risalente al periodo ellenistico. Nei Vangeli si indica in quella città il luogo dove avvenne l’episodio della confessione di Pietro, nella quale l’apostolo riconosce, in Gesù, il Cristo[1]. In un diverso passaggio dei Vangeli si narra poi di una donna di Panea[2], il nome che quella località aveva assunto nel I secolo d.C., guarita da Gesù. La città e tutto il territorio circostante saranno contesi tra arabi musulmani e crociati, che, nel 1179, dovranno infine soccombere davanti all’esercito del Saladino. Si tratta, quella di Banias e di Cesarea di Filippo, di una delle tante storie secondarie, che mantengono tuttavia il loro fascino. È davvero un peccato che la loro posizione, tanto decentrata rispetto ai principali percorsi di visita, le rendano ignote ai più.
[1] Mc 8,27-33; Mt 16,13-23; Lc 9,18-22
[2] Mc 5,23; Mt 9,20; Lc 8,43
Grazie per tutti questi bellissimi diari di viaggio, articoli vissuti! Israele mi affascina, e vorrei poterlo visitare così, dall’interno, non dai luoghi di culto e da quelli della retorica. Non potendolo fare, mi godo le descrizioni, vere e vissute, di questa sezione.
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