Churchill, il visionario perdente che salvò l’Europa

Nato a Woodstock da una famiglia aristocratica il 30 novembre 1874, intraprese la carriera militare prendendo parte alle guerre coloniali britanniche

In uniforme nel 1895

in India e Sudan nonché nella guerra boera. Deputato conservatore dal 1900, nel 1904 passò al partito liberale ricoprendo importanti cariche di governo. La sua carriera politica subì un duro colpo durante la Prima Guerra Mondiale, quando, come Primo Lord dell’Ammiragliato, ordinò la disastrosa spedizione di Gallipoli contro i turchi. Tornato nel Partito Conservatore, ricoprì, fino al 1929, la carica di Cancelliere dello Scacchiere (Ministro delle Finanze). Si oppose sempre alla politica delle concessioni alla Germania nazista e nel maggio 1940, nominato Primo Ministro, si trovò a gestire l’ora più buia di un’Europa invasa dai nazisti, diventando la guida morale della resistenza a Hitler. Rifiutò sempre ogni possibile compromesso e pur essendo anticomunista convinto, appoggiò la Russia di Stalin quand’essa venne attaccata e invasa. Riuscì ad ottenere il massiccio appoggio statunitense ma, una volta conclusa vittoriosamente la guerra, venne battuto dai Laburisti alle elezioni di 1946. Ottenne una rivincita nel 1951 e fu ancora Primo Ministro fino al 1955. Morì a Londra il 24 gennaio 1965 all’età di 91 anni.


Sarà che l’attuale momento storico non pare particolarmente propizio ai sentimenti europeisti e di democrazia liberale, ma la figura di Winston Churchill va assumendo sempre di più la connotazione di un mito rassicurante e senza confini, una sorta di riferimento morale dell’Occidente, celebrato in questi ultimi anni, specie dopo la Brexit, da centinaia di saggi, opere teatrali e cinematografiche. Una figura che suscita interesse ed ammirazione non solo per i momenti duri della guerra vittoriosa, ma anche, e forse soprattutto, per le sue cadute dalle quali seppe sempre rialzarsi. Uno statista narcisista ed eccessivo che beveva e fumava a più non posso, si lasciava trascinare dalla umoralità, ma comunque un fior di statista che seppe vincere non solo sul campo, ma essere il vincitore morale della guerra al nazismo. 

L’infanzia privilegiata, l’amore per i gatti, la passione per la pittura, l’ironia tagliente e sarcastica, il suo razzismo neppure tanto larvato:

Gandhi, un fachiro in mutande

gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio, in compenso vincono partite di calcio come fossero guerre.

Il fantasma di Gallipoli che riemergeva costantemente: quella spedizione maledetta che nel 1915 costò la vita a 45.000 soldati e che mise a rischio l’intera sua carriera politica. Per più di vent’anni, ogni volta che prendeva la parola dai banchi dell’opposizione gli gridavano: “remember the Dardanelles”. Forse fu proprio per cacciare via quel fantasma che accettò la premiership nel 1940, nell’ora più drammatica per l’Inghilterra e per una Europa sul punto di capitolare e consegnarsi alle divisioni naziste.

Se la guerra al nazismo fu la sua opportunità, va detto che, con grande lucidità, aveva capito fin dalla fine del primo conflitto mondiale il rischio che l’Europa stava correndo. Nel 1921 scriveva che avrebbe voluto il Regno Unito

alleato della Francia e amico della Germania per poter mitigare il rancore, la paura e l’odio tra Francia e Germania che, se lasciato a se stesso, tempo una generazione, porterà alla ripresa della guerra che si è appena conclusa.

Fu buon profeta. Per lui l’appeasement, l’accomodamento, con la Germania andava realizzato subito dopo la grande guerra, mentre Inghilterra e Francia erano forti della vittoria, prima che l’equilibrio dei poteri volgesse di nuovo a favore di Berlino. Già nel 1919 affermava:

Temo l’unione tra Russia e Germania, entrambe determinate a farsi rendere ciò che hanno perso in guerra.

Poi quando la Germania nazista, come aveva profetizzato, divenne forte tanto da fare un sol boccone di Austria, Cecoslovacchia e Polonia, non volle piegarsi al tremebondo appeasement di Neville Chamberlain. Quando Hitler attaccò la Russia, l’anticomunismo viscerale che lo aveva portato ad apprezzare Mussolini, non gli impedì di riconoscere il ruolo di Stalin nell’opposizione al nazismo; disse alla radio nel 1941:

Nessuno è stato più anticomunista di me ma il passato, coi suoi crimini, le follie, le tragedie, scompare. Oggi non abbiamo che un solo scopo distruggere Hitler e da questo obiettivo nulla ci distoglierà. Nulla.

E ai suoi collaboratori, poco prima di andare in onda, aveva detto:

Se Hitler invadesse l’Inferno io farei una dichiarazione alla camera favorevole al diavolo.

Questo era l’uomo e non era convenienza del momento perché l’altra sua dote era la visione strategica di lungo periodo; scriveva nel 1935:

la politica britannica per quattro secoli è stata quella di opporsi alla più forte potenza europea, creando di volta in volta alleanze di altri Paesi forti abbastanza per fronteggiare il prepotente. A volte fu la Spagna, a volte la Francia, spesso la Germania, ed oggi, è ancora quest’ultima da fronteggiare, ma se domani fosse la Francia anche contro essa io mi opporrei.

Proprio quello che chiamava la “mostruosità totalitaria” gli confermava la necessità della difesa dell’Impero Britannico e più in generale del mondo anglofono che considerava il prodotto di

quella catena di eventi che ci ha condotti ad essere quel che siamo: il nostro regime parlamentare, il nostro habeas corpus, i nostri diritti, la nostra tolleranza.

Non era solo presunzione etnica ma ferrea convinzione che compito britannico fosse quello di

diffondere le idee dell’autogoverno, della libertà della persona e delle istituzioni parlamentari in tutto il  mondo.

Il suo orgoglio era quello di agire dentro libere istituzioni rappresentative a differenza di Stalin, Hitler, Mussolini e persino Roosevelt, infatti, mentre guidava il suo Paese in guerra, doveva sempre contemplare la possibilità di essere rimosso da un voto parlamentare avverso. Premier, senza essere leader di partito, doveva controllare con la sua arte politica, ogni singolo voto e ogni singolo componente del Parlamento senza che questo andasse a scapito della sua autonomia e indipendenza di pensiero. Tutta la sua vita, coi trionfi, gli errori e le cadute, è il simbolo stesso della libertà che lui propugnava. Scriveva il suo segretario, in una nota resa pubblico pochi anni fa

la parola chiave per capire Churchill è Liberty. Per tutta la vita si è battuto per la libertà, contro ogni tentativo d’irregimentare e imporre le opinioni.

L’idea di libertà fu il suo tratto caratteristico laddove la storiografia per anni ci ha mostrato più che altro il suo profilo pragmatico, impulsivo, cinico e un po’ guascone.

Il suo problema fu come mantenere quel patrimonio alla fine della guerra e in tal senso va letta la sua proposta di Stati Uniti d’Europa da intendersi come sempre maggior coinvolgimento di Londra nel futuro del Continente. Non a caso all’Assemblea del Consiglio d’Europa del 1949 venne salutato come “primo cittadino d’Europa”, a dimostrazione di come la sua realistica visione politica si combinava con la sua capacità di immaginare un futuro diverso, per un continente da sempre martoriato da feroci rivalità e guerre ma che adesso doveva fare i conti col ridimensionamento del proprio ruolo internazionale. Anche se i paladini della Brexit, non da ultimo l’ex Premier Boris Johnson, hanno più volte tentato di annoverarlo tra i loro padri nobili, questo non è che una forzatura che non trova riscontro nella azione storica di Winston Churchill.

Un pensiero su “Churchill, il visionario perdente che salvò l’Europa

  1. Alla fine della guerra, gli UK non erano più una potenza mondiale. Churchill lo aveva capito; gli inglesi della Brexit ancora no.

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