
Varcata la porta con la celeberrima scritta:
Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate
Dante e Virgilio si trovano nel vestibolo dell’Inferno; non si può non ricordare l’esperienza di Odisseo che riesce ad arrivare sino alla porta dell’Ade e a chiamare a sé gli spiriti dei morti senza superare la soglia. Dante lo fa e le parole che descrivono la porta sono di una bellezza senza eguali:
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Dante viene subito assalito da grida di lamento e di dolore, come è giusto che sia, trattandosi di un luogo di sofferenza eterna. A dire il vero non siamo ancora entrati nell’Inferno vero e proprio, siamo in quella zona chiamata vestibolo. Qui le anime entrano e si dirigeranno verso la sponda del fiume Acheronte per essere traghettati sull’altra sponda e non veder mai più le stelle tanto amate da Dante.
In questo vestibolo si trova il peggio del peggio. La loro sorte è addirittura più infima rispetto a quella di coloro che sono condannati a scontare la loro pena nel punto più stretto dell’Inferno; sono persone così insulse e prive di ogni decenza da non meritare non solo di andare in Paradiso o in Purgatorio ma neanche nell’Inferno, quindi vengono lasciati fuori, alla Porta.
Si tratta degli ignavi. Una gran brutta categoria, dal momento che sono tutte quelle persone e non (vengono puniti qui anche degli angeli, come vedremo) che non hanno mai preso una posizione e non si sono mai schierati né con il bene né con il male. Siccome nell’Inferno dantesco vige la regola del contrappasso, ovvero la colpa che ti viene assegnata è direttamente collegata e contraria al peccato che ti viene imputato, queste anime sono costrette a fare quello che non hanno mai fatto in vita loro.
Dante vede uno stendardo (una bandiera) che corre in questo enorme spazio e una moltitudine di gente è costretta a corriere dietro a questo vessillo. Non hanno mai preso posizione nella vita (la decisione è simboleggiata dalla bandiera), ora sono costretti a correre dietro ad una bandiera per sempre. Nel frattempo, giusto per farli penare maggiormente, vengono punti da vespe e da mosconi; dalle ferite che si procurano esce sangue che cola sino a terra dove viene mangiato dai vermi. Il sangue, la forza vitale di ognuno di noi, che esce dai corpi degli ignavi diventa cibo per i vermi; come se la loro vita non fosse altro che cibo per i lombrichi.

Dante è davvero duro con queste anime, tanto da non citare nessuno per nome, come se non meritassero neanche questo onore. Fra la moltitudine vede una serie di angeli, colpevoli di non aver preso una decisione da che parte stare durante la rivolta di Lucifero. Meglio sarebbe stato per loro prendere la decisione di far parte dei cattivi, sarebbero stati meno colpevoli, forse.
Viene indicata una persona, che Dante crede di intravvedere, e la descrive come colui che
fece per viltade il gran rifiuto
Essendo un’anima così vile, non viene neanche nominata e ciò dà adito a diverse interpretazioni.
Per alcuni l’anima vista da Dante è quella di Celestino V (al secolo: Pietro da Morrone), un eremita che venne eletto Papa nel 1294. La sua colpa (vedremo poi perché Dante non riesce a perdonarlo) è quella di non essersi sentito all’altezza del compito che gli veniva chiesto di assumere e decise di rinunciare all’investitura papale. A causa di questo suo rifiuto rivennero fatte le votazioni e fu eletto Papa Bonifacio VIII (la persona che meno di tutti Dante riusciva a sopportare).
Altri, invece, vedono in quest’anima quella di Esaù che barattò la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. Essere primogeniti, per molto tempo, non voleva dire semplicemente essere nato per primo ma era un dovere di assumersi la responsabilità della famiglia ed Esaù ha preferito rinunciare per delle sane e buone lenticchie.
Altri ancora in questa figura ci vedono Ponzio Pilato, colui che non ha preso una decisione molte importante lavandosene le mani, facendo ricadere la colpa sugli altri.
Chiunque sia questa persona, la sua compagnia è fatta di anime di persone
che mai non fur vivi
e come tali non sono mai “esisti”, quindi continuano ad essere “ignoti” nell’aldilà.
L’unica città a cui si fa riferimento in questo terzo canto è Roma, capitale del potere papale.
Superata questa orda di esseri costretti a correre per l’eternità si arriva al fiume Acheronte e qui si avvicina Caronte sulla sua barca. Il traghettatore delle anime non è stato descritto per la prima volta da Dante, è una delle figure descritte da Virgilio nell’Eneide:
Caronte custodisce queste acque e il fiume e, orrendo nocchiero, a cui una larga canizie invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma, sordido pende dagli omeri il mantello annodato.
Egli, vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiaia, spinge la zattera con una pertica e governa le vele e trasporta i corpi sulla barca di colore ferrigno.
Eneide VI
Una piccola curiosità: in epoca romana il Caronte era una vera e propria professione, era uno schiavo che aveva il compito di controllare che il gladiatore non graziato fosse effettivamente morto e se così non era, doveva infliggergli il colpo mortale.

Dante descrive con minuzia di particolari questa figura che è entrata ormai nell’immaginario collettivo. I versi dedicati alla descrizione di Caronte sono tra i più evocativi di questo canto.
Caronte ci viene presentato come un vecchio canuto:
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!Inferno III, 82-84
Come un nocchiere con la barba e gli occhi di fuoco:
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.Inferno III, 97-99
I tre versi che lo rappresentano come un demonio dal carattere severo e sistematico sono forse i più belli da un punto di vista artistico:
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagiaInferno III, 109-111
Pubblicato su Latelier 91 il 15 aprile 2020 (https://latelier91.wordpress.com/2020/04/15/inferno-gli-ignavi-canto-iii/)