Il mestiere e il male di vivere

Il 27 agosto di settant’anni fa, nella camera di un albergo di Torino moriva suicida Cesare Pavese. Sul tavolino lasciò una copia del suo Dialoghi con Leucò, sulla prima pagina aveva scritto:

perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.

Qualche giorno prima, sul diario, che  diverrà Il Mestiere di Vivere, aveva scritto:

questo è il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò. La cosa più segretamente temuta accade sempre ci vuole umiltà non orgoglio. Un gesto. Non scriverò più.

Aveva scritto in maniera febbrile per tutta la vita e dalla vita prendeva commiato congedandosi dalla scrittura. C’era un biglietto tra le pagine dei Dialoghi con Leucò:

L’uomo mortale, Leucò non ha che questo di immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso la pena di molti, ho cercato me stesso.

Il suo essere scrittore aveva superato la vita e quando la scrittura non è bastata più, la vita, che per lui era diventata un labirinto di disperazione, prese il sopravvento.

Kierkegaard è stato il sottile maestro nella vita di Pavese, una vita che era consapevolezza che vivere è nostalgia di aver vissuto senza vita vera e premonizione di una morte sulle macerie della memoria. Un realismo che diviene metafisico, le macerie di una memoria di vita che divengono esse stesse metafore metafisiche. Come cultura greca e mito, nel momento in cui la logica incontra la ragione, divengono dissolvenza degli dei, il suicidio non è decadenza ma convivenza con le rovine di una civiltà rappresentata dal diavolo che scappa sulle colline per cercare una casa che non trova, trova invece quella luna che illumina i falò. Poderosa allegoria della ragione cui fa da scenario costante la memoria che si annulla nella morte che verrà e avrà i tuoi occhi. Tutto si perde e si disperde e si consegna alla morte coi suoi dialoghi, solo il Leucò trovò il suo mestiere di vivere che è stato mestiere di scrivere.

Questo era lo struggente Pavese metafisico, scrittore e intellettuale di sinistra, scomodo e anticonformista, mai supini a prefissati schemi ideologici, che si oppose sempre alle ideologie delle sinistre ponendo al centro della sua letteratura l’uomo, lasciando un messaggio anche a nome dei tanti vinti che reclamano dignità.

Non tutti capirono e Pavese restò il sospetto e scomodo, incostante e talvolta disorganico uomo di cultura che rifiutava il precodificato. Un Intellettuale scontroso, solitario, antifascista, iscritto al Partito Comunista ma che, nella egemonia culturale della sinistra, rimase sempre avulso dallo storicismo marxista. Portò la colpa di aver fatto pubblicare autori proibiti, ne ricavò critiche e censure, come quando decise di far stampare il reazionario rumeno Mircea Eliade, uno dei più grandi studiosi di religiosità antiche e di antropologie comparate. Quando il Partito intervenne ne fu molto contrariato, perché per lui ogni tipo di censura era da condannare. Scrisse a Ernesto De Martino:

Che Eliade abbia fama di fascista che paura può fare?

Che paura poteva fare, si chiedeva Pavese, senza capacitarsi del fatto che il suo orizzonte divergeva dall’intellettualismo collettivo, stava più con Vico che con Marx, era attratto dal mistero del sacro più che dallo storicismo hegeliano, più dalle langhe che dalle fabbriche, sempre cercando, nella magia degli anni dell’infanzia, quella fede che gli era mancata.

I dissidi con la sinistra ne  avvilivano il morale lo criticarono per aver scritto ne’ La Casa in Collina pagine di troppa umana pietà per i morti dell’altra parte, quella sbagliata:

Ogni guerra è guerra civile, ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.

Pubblicò l’Antologia Einaudi e l’Unità la stroncò senza tanti riguardi: troppa America, troppo irrazionalismo. Lucio Lombardo Radice su Rinascita lo paragonò a Moravia e rimproverò entrambi di decadentismo. Mario Licata recensendo La luna e i falò ne denunciò l’ambiguità, Rinascita se la prese col suo saggio sul mito e  anche La bella estate venne giudicata troppo intimista. Cesare Pavese nell’ovattato silenzio delle segreterie era stato scomunicato.

Adesso a settant’anni dalla sua morte è il tempo di restituirlo alla verità e al mito.

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