Il Femminicidio nella Storia: APRONIA

PROLOGO

Femminicidio è un neologismo usato per la prima volta nel 1992 dalla criminologa inglese Diana H. Russel. Trent’anni dopo, è un termine  entrato purtroppo nel linguaggio comune, al punto che la Treccani lo ha scelto come parola dell’anno 2023.

Femminicidio non indica semplicemente un delitto la cui vittima è di sesso femminile. Indica l’uccisione di una donna in quanto tale, nell’ottica di una cultura in cui pare del tutto lecito l’esercizio di un potere maschile fino all’estrema conseguenza. 

Il fatto che questo termine, solo da pochi anni, sia entrato nel linguaggio comune non significa che ciò che definisce sia un fenomeno nuovo. Prima lo chiamavamo omicidio, come tutti gli altri. Per tacere che fino a pochissimi decenni fa spesso veniva derubricato a “delitto d’onore”.

Il problema esiste dagli albori della storia. Le donne sono sempre state oggetto di violenza che molte, troppe volte, le ha portate alla morte.

Quello che dovrebbe davvero stupirci è che esistano ancora, nel terzo decennio del terzo millennio, uomini che uccidono mogli, compagne, fidanzate, uomini che considerino la donna una loro proprietà, uomini che per il fatto di essere più forti fisicamente si sentano in diritto di alzare mani e coltelli.

Il progresso non ha agito su questo modo di pensare che continua a sopravvivere in un contesto filosofico e culturale all’apparenza ben differente. Abbiamo però un vantaggio sul passato: il moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione e la connessione globale che abbiamo raggiunto negli ultimi anni fanno sì che ora nessun femminicidio sfugga alle luci della ribalta. Non si possa più far finta di niente e girarsi dall’altra parte. 

Un tempo non era così e le donne che hanno perso la vita nel passato sono ormai solo aria e cenere.

A questo vogliono servire questi articoli: a dar loro la voce per raccontarci le loro storie, a dar loro un nome da non dimenticare.


La violenza contro le donne è un piaga che affonda le sue radici lungo tutta la Storia.

Busto di Nerone
Musei Capitolini

Studiando l’antica Roma, abbiamo appreso che diversi imperatori si macchiarono di femminicidio: vale per tutti l’esempio di Nerone, che fece uccidere la madre Agrippina e la prima moglie Ottavia per poi occuparsi personalmente di una moglie successiva, Poppea, a cui sferrò un calcio mortale nel ventre quando era all’ottavo mese di gravidanza. Va detto che in tutte le classi sociali romane era presente un’aggressività di genere derivante da un modello di uomo in grado di affrontare e vincere i nemici e di farsi rispettare e obbedire in casa propria.

Poppea
Museo Nazionale Romano
Palazzo Massimo

La vicenda di Poppea è nota ma tante sono le donne che hanno perso la vita senza lasciare nessuna traccia o lasciandone una flebile, come un’iscrizione funeraria, o una semplice riga nelle cronache di uno storico. 

Anna Pasqualini, che è stata a lungo docente di Antichità Romana, ha studiato le epigrafi, trovandone alcune davvero strazianti, come quella di Prima Florenziagettata nel Tevere dal marito Orfeo. Ella aveva 16 anni e mezzo” o quella di Giulia Maiana donna specchiatissima, uccisa per mano di un marito crudelissimo”. Negli Annali di Tacito troviamo il nome di Ponzia Postumina, uccisa dall’amante dopo una notte di passione. Di questi casi non sappiamo né il come né il perché: solo i nomi di queste sventurate sono sfuggiti all’oblio. 

Il primo femminicidio che possiamo raccontare è quella che vede vittima Apronia, moglie del pretore Plauzio Silvano. È sempre Tacito a scriverne nei suoi Annali. L’anno è il 24 d.c., il decimo del regno dell’imperatore Tiberio Claudio Nerone. Di Apronia e della sua vita non sappiamo nulla, i fatti a nostra conoscenza riguardano solo la sua morte. Una schiava la trova morta ai piedi di una finestra di casa, dalla quale è evidentemente precipitata. Il padre Lucio Apronio sospetta subito del genero Silvano e lo trascina davanti a Tiberio. L’uomo si trova in evidente stato confusionale. Tuttavia si dichiara innocente, asserendo che al momento del fatto stava dormendo. In realtà, secondo lui la moglie si è suicidata. 

La sua versione non convince nessuno. Lo stesso imperatore Tiberio si reca sulla scena del crimine e dentro la stanza trova chiari indizi della lotta che ha preceduto la spinta che ha fatto precipitare Apronia. La povera donna si è difesa disperatamente, ci sono le prove, e questo l’imperatore Tiberio riferisce al Senato ottenendo l’arresto di Silvano e la convocazione dei giudici per un processo a cui non si arriverà.

Livia Drusilla
Musée Saint-Raymond, Toulouse

La madre di Tiberio, Livia, donna potentissima, era molto amica della nonna di Silvano. Tacito insinua che sia proprio Livia a recarsi da lei, spiegandole che l’esito del processo sarà una condanna infamante per il nipote e per tutta la loro gens. Così a Silvano viene recapitato in cella un pugnale, un chiaro messaggio circa quello che ci si attende da lui. L’uomo obbedisce e viene ritrovato in un lago di sangue.

La vicenda sembra chiudersi, senonché qualche tempo dopo, a sorpresa, il caso viene riaperto e a salire sul banco degli imputati è una donna, tale Numantina, prima moglie di Silvano. L’accusa è aver manipolato la volontà dell’ex marito con filtri e riti magici, inducendolo a uccidere Apronia. Il movente, una banale gelosia. 

Come si arriva a tale ipotesi è presto detto: lo stato confusionale di Silvano al momento dell’arresto viene utilizzato dalla sua gens nel tentativo di lavarne definitivamente l’onore. 

L’accusa di incantamento nei confronti di una donna a Roma era molto frequente: era il classico capro espiatorio con cui si tentavano di giustificare atti disonorevoli. In realtà, Roma e i suoi giudici non erano così ignoranti e arretrati e spesso i processi si chiudevano con un’assoluzione. Accadde anche in questo caso, contro Numantina non c’erano sufficienti prove e così poté tornare libera. 

Il caso di Apronia rimase così ufficialmente irrisolto. 

Il più che presumibile colpevole era morto ed era morto male. Ciò per i parenti della povera Apronia significava che giustizia, in qualche modo, era stata fatta.