Nel febbraio del 1525, tra i boschi della Vernavola e le mura della città viscontea, un marchese spagnolo al servizio dell’Imperatore prese una decisione destinata a mutare il corso della storia. In quella pianura immersa nella nebbia, la guerra smise di essere solo scontro di eserciti e divenne astuzia, inganno e intelligenza militare.
Che ne dite di trovarci al parco… per far guerra?
Non si trattava di scimmiottare quel gioco, oggi tanto di moda, un po’ di meno negli ultimi tempi, che diverte i finti nemici portandoli a nascondersi dietro gli alberi a lanciare palle colorate. Qui la guerra era un affare serio ed ancora in mano ai militari, prima che parecchio tempo dopo qualcuno ne teorizzasse un pensiero politico divergente.
No. Qui si trattava di tutt’altra cosa. Era l’invito, con un latente messaggio ben augurale, che il Marchese di Pescara deve aver rivolto a sé stesso la sera che principiava il 24 febbraio di cinquecento anni fa, davanti a quella città di pianura, arroccata tra le mura a stringere i suoi cittadini in difesa dai soldati d’oltralpe venuti a prendere, con il loro Re, un titolo di Duca rimasto nella polvere di qualche archivio testamentale di cent’anni addietro.
“Che ne dite se ci troviamo al parco?”. Così ripeteva, a sé stesso Francesco Ferdinando d’Avalos, spagnolo di Napoli, Marchese di Pescara, gran capitano militare che aveva dato prova delle sue capacità strategiche e tattiche da tempo, guadagnandosi, insieme all’onore delle vittorie sul campo, il rispetto e la fiducia dei suoi sottoposti, nonché, quella del suo Imperatore Carlo V di Spagna che gli aveva affidato di risolvere quell’assedio. Si trovava ora alle strette del tempo, e certe decisioni non erano più rimandabili; irrevocabile per lui era la risposta che stava a cuore a coloro che lo premevano più di altri: i Lanzichenecchi.

Gente forte, fisicamente, quanto non ammirevole nell’intelletto, use a dar prova di forza in battaglia e fuori. Rapidissimi e definitivi nell’arraffare tutto ciò che rappresentava bottino a cui dicevano di avere diritto per evidenza delle consuetudini e delle clausole sottoscritte nei contratti. Sin dal momento del nemico caduto sconfitto si abbandonavano ad ogni sorta di razzia, prima sull’uomo, poi sulle donne, sulle cose, sugli animali, su tutto si configurasse bottino. Avevano avuto un bel dire, nel tentativo di alzare il numero di adesioni i reclutatori di volontari per le guerre contadine contro i Principi Tedeschi; ”Omnia est communia” che garantiva a quei poveracci di sedere al tavolo dei loro signori e godere di ogni ben di Dio, in quanto, ogni cosa era di tutti.

Tutto ciò non era bastato ad attirare i Lanzi, che preferivano, oltre alla paga da soldato sancita per contratto nominale, le ricchezze della penisola, dove la produzione agricola, gli allevamenti e le manifatture erano addirittura proverbiali, superiori a qualunque altro posto in Europa. E Francesco Ferdinando, che quella terra ricca ben conosceva, forse non comprendeva fino in fondo come non si potesse rintracciare quella stessa opulenza anche in altre parti del mondo. La sua visione di fiero militare qual era, non contemplava altro che spade e cavalli da condurre al centro degli scontri e quelli eran meno di tutto adatti a conseguire una vita di prosperità. Ora doveva prendere una decisione; la più lesta, ma anche la più opportuna e praticabile tra quelle che si potevano trovare quella notte. In testa aveva un solo pensiero: o dare battaglia o, non potendo pagare i Lanzi, vederli andar via e subirne poi la conseguenza andando incontro ad una quasi certa sconfitta dai Francesi.
“Dai troviamoci al parco!” deve avere ribadito nei suoi pensieri il rosso Marchese di Pescara, scacciando quelli che non sembravano praticabili ma che ancora gli arruffavano la fulva capigliatura. Il parco era quello che centocinquant’anni prima era stato realizzato da Galeazzo II Visconti ed ampliato dal figlio Gian Galeazzo. Chi l’aveva visitato ne era tornato raccontandone le suggestive meraviglie. Animali selvatici in quantità quali cervi, daini, caprioli che si aggiungevano alle più comuni lepri, e poi pernici, fagiani, quaglie e chissà quanti altri volatili. Era stata realizzata anche una “orsaia” per contenere i plantigradi, e poi a non bastare, animali esotici, struzzi, ghepardi, bertucce. I boschi erano fitti e numerosi, i corsi d’acqua ovunque, tra cui regnava al centro di essi la grande roggia Vernavola. E poi un comodo castello dai grandi camini dove godere dell’esito delle cacce e dei sollazzi dei duchi che, munifici verso i loro ospiti, ne osservavano il tempo addolorato della partenza. Già. Ma come entrare in quel parco, le cui lodate rinomanze erano quasi scomparse per il continuo esercizio della guerra che tutto travolge e distrugge? Bisognava levare un po’ di quel muro che correva a delimitare l’ex godimento dei nobili e che stava a guardia di quei pochi fortunati contadini che vivano un’esistenza più rassicurante di tanti loro conterranei. Parecchio esteso, e tutto circondato e protetto, una cavalcatura poteva percorrerlo, senza sosta e senza inciampi in un’ora o forse più.

“E se entrassimo noi nel parco?”. Il rosso Francesco Ferdinando stava sciogliendo un quesito che andava verso la soluzione. Lui, che sosteneva, ed in questo caso pensava in spagnolo:
Deme cien anos de guerra, y no un dia de battalla.
Già, il Marchese sapeva che troppi incerti portava l’esito di un solo scontro che poteva ribaltare in poco tempo alleanze ed equilibri di cui si sarebbe osservato uno sviluppo immediato e non sempre riconducibile a favore. La sua natura era quella di attendere, osservare, soppesare… Questa volta, però si trattava di agire ed abbattere in qualche modo quel muro.
“Quel muro, quel muro … quel muro! “ . Ecco, faremo in questo modo, svelleremo le fondamenta in tre punti, scalzeremo un poco di mattoni, quanti ne son sufficienti al passare una corda, e poi i miei uomini più robusti e con traino di cavalli tireranno sino a farlo cadere! Quel muro, ormai senza scarpe cadrà a terra! Già, funziona certamente! Ma quanto rumore ci sarà! Le tende delle guardie francesi sobbalzeranno, e con le guardie le loro donne che dovranno lasciare quanto più a lor piace … Ecco faremo un gran fracasso, faremo rullare i tamburi, spareremo i nostri archibugi, gli uomini urleranno come ad una festa di borrachos, e ci muoveremo tutti verso nord come se volessimo lasciare il campo. Confonderemo i Francesi, ed una volta dentro il parco toccherà alla bravura dei nostri archibugieri fare la differenza…
Poche ore dopo, alle prime luci dell’alba di quel 24 febbraio 1525, dopo un primo assalto vittorioso della cavalleria pesante francese, che sembrava aver già deciso la vittoria, gli archibugieri spagnoli, rinforzati dai micidiali moschetti appoggiati su forche, facevano strage di quei valorosi homini d’arme, forando le loro corazze, e costringendo Re Francesco alla resa. Su di loro, i migliori nobili di Francia pronti sino a quel giorno a giubilare il loro monarca vittorioso, calava la furia delle razzie Imperiali, che per diritto guerresco si impadronivano delle stupende spade dalle sfarzose impugnature e delle gemme incastonate sugli anelli dorati, segni distintivi e di vanto delle rispettive appartenenze. Raramente si era visto un Re, comandante in campo del proprio esercito arrendersi a terra e consegnare la spada in segno di sconfitta. A quell’uomo, infinito generatore di desideri impossibili, soggiogante ed irrisolto, rispondeva in viso la sua vanagloria che nello spazio di un battito lo costringeva a misurarsi con il fango della sua etica e con quello dei boschi della Vernavola.
Nelle ore più cupe che quel giorno di tenebra stava riservando a re Francesco, lontano miglia e miglia l’imperatore Carlo V, ancora ignaro di quanto stava avvenendo, riceveva le riverenze dei mille cortigiani che ossequiosamente lo omaggiavano nel giorno del suo 25imo genetliaco.Fuori da quel palazzo, l’aria non era mai stata così leggera ed impalpabile.
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