Questa mattina mi sono alzata presto e ho raggiunto Via dei Legionari dopo aver percorso il viale alberato che costeggia il fiume.
Sono qui davanti ai tre caseggiati con la Villa Liberty alle mie spalle.
Con grande sorpresa, ma anche con disappunto, trovo che il tempo si è fermato e che, una volta andati via o morti gli abitanti, nessuno più ha preso possesso degli alloggi.
Il caseggiato col glicine, quello dove abitavo io, è completamente sventrato e abbandonato a se stesso: hanno tolto le finestre e le porte e si possono vedere i locali interni con gli alti soffitti.
La struttura esterna è rimasta intatta con gli stessi colori, i rilievi delle cornici delle finestre, le scrostature di allora. Il glicine è andato avanti nella sua lenta crescita ed è tutto fiorito. Fiori su una tomba.
La casa rossa è disabitata, l’unico caseggiato che è stato rimesso un po’ in ordine è quello anonimo. Ci sono panni stesi alla ringhiera, segno che ci abita qualcuno.
La sorpresa più grande sono i sassi: incredibile, sono gli stessi di allora, li riconosco, appiattiti e consumati dal nostro correre e camminare sopra.
La Villa Liberty che come segno di vita ha alcune finestre aperte con i tendoni tirati, è sempre avvolta nel gelo e nell’austerità. Nel giardino ci sono ancora le ortensie e i fiori di San Giuseppe. Le due grandi magnolie non sembrano cresciute, forse perché da piccola le vedevo più grandi di quanto lo fossero realmente.
Provo a chiudere gli occhi per sentire le voci di noi bambini che giochiamo nel cortile, degli adulti che ci sgridano perché urliamo e disturbiamo.
Sento rotolare le botti del vino e il rumore della Giardinetta che non vuole partire.
Saluto le “Tre Grazie” che escono il sabato pomeriggio e mi lasciano a casa.
Rivedo Giulia sposa raggiante e commossa che attraversa il cortile e va a piedi verso la vicina chiesa accompagnata da mio padre.
Rivedo la bara di Libero che parte per il suo ultimo viaggio.
Cerco con lo sguardo le finestre dello scantinato e il mio pensiero va ad Aurelia.
Sapevo che era morta alla fine degli anni Sessanta. Avevo chiesto a mia mamma come mai e lei mi aveva risposto:
«L’ha lavurà tropp». Me lo aveva detto in dialetto e velocemente, lei che non lo parlava quasi mai e non voleva nemmeno che lo parlassero le sue figlie. C’era un tono di rimprovero nella sua voce, non capivo bene se verso Aurelia o verso gli altri che l’hanno sfruttata.
Questa frase mi era rimasta impressa e mi aveva fatto molto male perché era come se mi fossi resa conto solo allora della vita difficile che aveva fatto Aurelia. Non un momento di riposo, né un vestito nuovo o una festa . Penso che non sia mai venuta al bar a vedere Lascia o Raddoppia.
“Ha lavorato troppo”: questa frase mi suona come un’accusa verso chi non è riuscito a fare qualcosa per lei. Solo un animale fedele poteva lavorare così senza ribellarsi mai e lei era un animale fedele, verso la famiglia e verso la società che le dava le briciole.
Sono sicura che ora nessuno abita nei due grossi locali dello scantinato.
Mi sembra di vedere solo ora le ingiustizie che c’erano, gli errori che in buona fede sono stati fatti.
Non riesco più a ricordare il freddo delle camere da letto in inverno, l’acqua che ti gelava le mani, la mancanza di tutte le comodità di cui ora posso godere.
Ho dato un ultimo sguardo al glicine, l’unico che è andato avanti a vivere e ad abbellire quel caseggiato che sta morendo e mi sono incamminata verso il fiume.
La Piazzetta, come è chiamato lo slargo senza piante e panchine, ha rifatto il maquillage alle case lasciandole intatte nello stile di allora. Un piccolo condominio a quattro piani spicca tra le case basse e un bar occupa parte dello spiazzo libero con sedie e tavolini.
Mi sono seduta su una panchina in riva al fiume, forse la stessa dove si sedeva Maria Rosa.
Guardo il fiume che scorre, fisso una piccola massa d’acqua: ecco, mi dico, osservala bene perché non tornerà mai più. Dopo di lei un’altra e poi un’altra ancora, infinite ne passeranno. Ne inseguo una, mi alzo e vado nella sua direzione, ma presto la perdo di vista. E intanto l’acqua scorre, sempre uguale e sempre diversa. Quella che è passata un minuto prima non c’è più.
Provo a immaginare cosa succederebbe se per qualche strana legge fisica le piccole masse si fermassero. “Non andatevene, vi voglio osservare meglio, voglio stare di più con voi, fatevi conoscere”.
Lo so, è impossibile, così come è impossibile arrestare il tempo. È come la vita trascorsa in Via dei Legionari: è passata senza possibilità di fermarla. Ogni secondo era come l’acqua del fiume che scorre. Noi bambini di allora non ci accorgevamo del tempo che passava, dei minuti che si rincorrevano e il nostro corpo e il nostro cuore crescevano e prendevano forma.
Minuti sopra minuti si sono accumulati e senza che ce ne rendessimo conto, ci siamo ritrovati grandi. Ogni piccola massa d’acqua è andata avanti per conto proprio e ognuno di noi ha preso una strada diversa trascinati da quella che è la corrente della vita.
Il campanile della chiesa di San Bernardino ha appena suonato la mezza.
Dalla scuola elementare gli scolari si lanciano in una corsa appena le maestre li lasciano liberi. I genitori, premurosi, li caricano sulle auto e, nel giro di pochi minuti spariscono inghiottiti dal traffico.