La Bibbia, prima della Storia, ci spiega che Abramo piantò qui nei pressi, a Mamre, la sua tenda, dove ricevette i messaggeri che gli annunciarono la nascita del figlio Isacco. Alla morte di sua moglie Sara, comperò una grotta doppia per seppellirla e dove sarebbe poi stato egli stesso sepolto dai figli Isacco e Ismaele, quest’ultimo avuto dalla serva Agar con il benestare della moglie. Divenuta il principale centro della tribù di Giuda, la più numerosa delle mitiche dodici tribù di Israele, a Hebron David fu unto re e la città divenne capitale del suo regno, prima della conquista di Gerusalemme. Fu nel I secolo a.C. che Erode il Grande fece costruire il monumentale edificio che ancora oggi, unica costruzione erodiana giunta pressoché intatta fino a noi, racchiude le stanze dove si trovano i cenotafi dei Patriarchi e delle Matriarche. I primi cristiani lo adattarono a chiesa nel VI secolo d.C. e permisero agli ebrei di continuare a visitarlo, dividendo con essi gli spazi di agibilità. Gli arabi conquistarono la città nel VII secolo d.C, e, dopo che il Saladino nel XII sec. d.C scacciò i Crociati, l’edificio fu trasformato in moschea, ristrutturando gli interni, con la giustapposizione di due minareti a due dei suoi quattro angoli esterni.
Sarà poi la dinastia degli Ayyubidi prima e i Mamelucchi poi, a controllare Hebron fino al 1516, quando l’Impero Ottomano la conquistò.

Si deve poi fare un salto di quattrocento anni prima di vedere altri cambiamenti. Nel dicembre 1917, nel corso della Grande Guerra, Hebron fu occupata dalle truppe britanniche. Successivamente, durante una serie di moti anti.ebraici del 1929, furono uccisi 67 ebrei. Durante gli scontri l’antico quartiere ebraico venne distrutto. Alcune famiglie restarono a Hebron, ma dovettero andarsene nel 1936, a causa di una nuova e più violenta sollevazione araba. La città rimase sotto controllo britannico fino al 1948. L’anno successivo la Legione araba di Transgiordania la occupò, insieme a tutta la Cisgiordania.

Dopo la guerra dei sei giorni del 1967, quando Israele conquistò a sua volta l’intera Cisgiordania, un po’ alla volta gruppi di ebrei tornarono ad abitarvi non senza sollevare reazioni ostili da parte araba, che si rifiutava di accettare il loro ritorno in città. A loro volta gli ebrei presenti a Hebron, in gran parte ultraortodossi, in ragione dei diversi e contrastanti usi e costumi religiosi, da allora vivono in perenne conflitto, ora latente ora manifesto, con la popolazione palestinese.

Non posso negare che la prima volta in cui sono entrato a visitare quel sito che le due religioni, musulmana e ebraica, ha separato e ne ha fatto due mondi distinti, sia stata un’esperienza inattesa e sorprendente. Non si deve necessariamente essere credenti per provare una qualche suggestione, per non fare una piccola riflessione, attorno a quello che quel luogo significa. Nelle sale adibite a moschea si trovano i cenotafi di Leah, Giuseppe e Giacobbe. Quelli di Sara e Abramo, anch’essi nell’area musulmana, hanno un affaccio anche sul lato ebraico. L’atmosfera è serena, le voci sommesse. Non so dire quale sia il clima durante le funzioni collettive, ma negli altri momenti della giornata, per quanto possa dire di aver notato nel corso delle mie uniche tre visite, si possono vedere persone in lettura del Corano, in preghiera, spesso sedute a terra, sui tappeti. Oppure conversare a bassa voce. Perfino assopite. Nell’area riservata alle donne ho una volta notato un gruppo di ragazze ascoltare con calma attenzione una spiegazione, forse una lezione, un insegnamento coranico. Ho osservato come gli ospiti siano sempre trattati con grande cortesia e riguardo. Un inaspettato senso di quiete può pervadervi. Recuperate le calzature lasciate, come d’uso, all’ingresso, usciti dalla moschea si entra poi, attraverso un altro ingresso indipendente, nel settore adibito a sinagoga. Qui si trovano i cenotafi di Isacco e Rebecca, mentre si possono vedere, oltre una grata, quelli di Abramo e Sara, situati nell’adiacente moschea proprio sul limite che la separa dalla sinagoga. Ho ogni volta trovato questo altro ambiente molto diverso da quello appena lasciato. L’arredo è freddo, essenziale, a parte pochi mobili di pregio e l’”Aharon”, cioè, l’Arca, l’armadio che contiene i Rotoli della Torah. Le poche persone presenti mi sono sempre sembrate indaffarate dietro non saprei dire cosa. Nei confronti degli ospiti, facili da individuare in quanto – essendo quella di Hebron, una comunità relativamente piccola, i suoi membri si conoscono quasi tutti e quasi tutti adottano l’abbigliamento tradizionale degli ortodossi, il sentimento dominante è quello dell’indifferenza che ti fa sentire trasparente e a disagio, un pochino fuori posto e appena tollerato. Solo in una delle mie tre visite ho trovato all’ingresso un po’ di cordialità. Si festeggiava qualcosa, non so più dire di cosa si trattasse, e a chi entrava veniva offerto un dolce e un bicchiere di vino.

Sembrava peraltro un atto dovuto, con poca spontaneità. Non potei non chiedermi cosa ci fosse davvero dentro quei monumenti sepolcrali, dato che gli eventuali resti dei patriarchi dovevano trovarsi sotto l’edificio, nelle grotte. Non potei nemmeno fare a meno di pensare ad alcuni aspetti delle loro vite, così come sono descritte nei Testi sacri. Al matrimonio tra Abramo e Sara, fratellastri, e alla codardia di lui, disposto perfino a mettere la moglie/sorella nel letto di altri pur di salvarsi la vita[1]; alla stessa codardia di Isacco, il quale mente al riguardo della moglie Rebecca affermando essere sua sorella per non venire ucciso[2]; al raggiro di Rebecca (Rivqa, in ebraico, significa “colei che irretisce”) nei confronti del marito Isacco, quando, ormai cieco, la moglie gli fa credere di avere davanti a sé il suo figlio prediletto Esaù, mentre chi si trovava di fronte era l’altro figlio, Giacobbe, il preferito della madre[3]. Sarebbe stato solo grazie a quell’inganno che Giacobbe, il poligamo, avrebbe potuto ricevere l’eredità (la “benedizione”) del padre; alle due mogli di Giacobbe, Leah e Rachele e alle due concubine Zilpa e Bila, con le loro rivalità, le loro invidie[4]. E ancora a Giacobbe, a sua volta ingannato dallo zio e futuro suocero Labano, quando quest’ultimo, con un raggiro, gli dà in sposa la figlia Leah anziché quella che Giacobbe avrebbe voluto, Rachele[5].
Alla fine, per una ragione o per l’altra, nelle loro vite “sante” ciascuno di noi ci si potrebbe ben rispecchiare.
[1]V. Gn 12, 10-20 e Gn 20, 1-12
[2]V. Gn 26, 1-11
[3]V. Gn 27, 1-29
[4]V. Gn 29, 31-35; 30, 1-24
[5]V. Gn 29, 21-30
Anche questo articolo è molto interessante e mi ricorda il racconto di un’amica recatasi a Gerusalemme. Anche lei ha provato in senso di disagio e malcelata intolleranza da parte di ebrei ortodossi che si coprono parte degli occhi incrociando persone estranee
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E’ vero che alcuni, tra gli ebrei ortodossi, hanno atteggiamenti riluttanti, talvolta poco concilianti, non tanto verso gli estranei in generale, quanto – mi sembra di poter affermare – verso i cristiani, che magari espongono i simboli della loro fede.
Riporto qui di seguito, una breve spiegazione che mi è stata richiesta alcuni giorni fa al loro riguardo da un iscritto ad un’altra Unitre.
In quanto agli ebrei ortodossi, posso dire, brevemente, poche cose. Vengono indicati impropriamente come “ortodossi”, come a distinguerli dagli altri. In realtà la maggioranza degli ebrei si ispira all’ortodossia. Quelli vestiti di nero ecc. sono più propriamente detti i Chassidim (i pii), quella corrente dell’ebraismo ortodosso che segue gli insegnamenti di un rabbino vissuto nel XVIII secolo in Polonia, detto il “Ba’al Shem Tov”, il Signore del Buon Nome. Mantengono usi e abbigliamento risalenti a quell’epoca e interpretano l’osservanza religiosa secondo gli insegnamenti del loro maestro. Una vita codificata in ogni aspetto, al fine di essere quanto più aderente possibile al dettato biblico, e soprattutto talmudico, così come viene da questo gruppo interpretato. Una vita in sè semplice, improntata alla bonomia, ma che li porta anche ad isolarsi dal resto del mondo circostante, dal quale ritengono, non a torto, di non essere compresi. Tuttavia, non si pensi che siano un monolite. Al loro interno esistono e prosperano diverse scuole e tradizioni, ciascuna ruotante attorno a maestri rabbini molto venerati. Tra i sottogruppi più radicali vi sono gli “Haredim” (i timorati), gruppi dediti pressochè solo allo studio delle Scritture e a informare la loro quotidianità in modo estremamente rigido attorno a precetti, obblighi e divieti, che guidano ogni loro gesto, anche il più apparentemente banale, e le loro relazioni. Questi ultimi non cercano, non desiderano contatti con il mondo esterno, e nemmeno con gli ebrei, anch’essi peraltro ortodossi, secolarizzati, quelli, diciamo così, “normali”. Temono ogni sorta di possibile contaminazione etica e culturale. Alcune di tali comunità, mi riferisco in particolare alla comunità Satmar, che prende il nome dalla città di Szatmar, dove viveva il rabbino fondatore, sono poi divenute particolarmente rigide e isolazioniste, dopo la Shoah. E’ una di quelle comunità particolarmente falcidiate dallo sterminio e ora diffidano di tutti e si tengono ossessivamente lontane dal mondo “normale”, percepito come fonte di pericolo e di Male. Alcuni di loro, talvolta, mettono in atto gesti o comportamenti poco amichevoli nei confronti di gruppi terzi, in particolare di chi, ad es. percorrendo una strada di Gerusalemme, si muove in gruppo nel corso di un pellegrinaggio e porta con sè una croce o simboli simili. Occorre capire, senza con ciò voler giustificare, che per essi i simboli cristiani indicano solo una storia fatta di secoli di vessazioni e persecuzioni.
Per tutti loro è spesso difficile, quando non impossibile, affacciarsi fuori dal loro mondo. Oltre alla pressione condizionante del loro gruppo, occorre considerare che in esso vi sono nati e cresciuti, tra loro vi è chi nemmeno sa far uso del denaro, sono spesso ignoranti di ogni materia al di fuori dal saper leggere e scrivere. Studiano ossessivamente i Testi e il Talmud. Molti di loro vivono nella miseria e sopravvivono grazie al sostegno della comunità e anche di quelli “normali”. Ripeto, tuttavia, che si tratta di minoranze e che non si può generalizzare e considerare i loro comportamenti, diciamo pure maleducati, come se fossero correntemente in uso presso tutti coloro che si identificano con l’ebraismo.
Spero di esserLe stato utile. Giorgio Tavani
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