La decolonizzazione

Una premessa decisiva

Il colonizzatore ha dato al colonizzato, inconsapevolmente, i mezzi per reagire. Le Nazioni che hanno imposto alle colonie il loro sistema economico e sociale hanno disgregato le economie e le società tradizionali. Hanno così creato anche i presupposti della decolonizzazione: associazioni di capi di villaggio (i maliks indiani, i notabili rurali algerini), i sindacalisti delle città (Tunisia), la piccola borghesia civile e militare (in Egitto e Africa nera). l colonizzatori hanno integrato le colonie nell’economia del mondo, ma le hanno anche abbandonate allo sfruttamento e all’arbitrio: le hanno tolte dall’isolamento ma hanno imposto i modelli da seguire, che erano esattamente quelli dei colonizzatori. Nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche hanno formato uomini a loro quasi identici culturalmente, e hanno dato così origine a delle culture ibride, destinate al disagio, alla frustrazione e all’impazienza ma capaci anche di impugnare i concetti e le armi dei “maestri”, armi nel  senso stretto e armi “improprie” (la corruzione…).

Caffè, cotone, cacao, tè, gomma. Legnami pregiati: tek, mogano, ebano, palissandro, iroko. Petrolio, oro, diamanti, rame. Il solo Sud Africa ha le maggiori riserve di oro del mondo (circa il 35% del totale). È il primo produttore mondiale di platino (possiede il 55,7% delle riserve mondiali), e inoltre ha ferro, manganese, antimonio, argento, vanadio, nichel e rame. La zona orientale del Congo è una grande miniera d’oro, rame, stagno, diamanti. Il sottosuolo è ricco di coltan, un elemento indispensabile per tutto il settore dell’industria hi-tech. La Libia ha le più importanti riserve di petrolio dell’Africa, nonché è il quarto produttore africano di gas.

Il colonialismo ha imposto la produzione di monoculture, che hanno sottomesso i paesi produttori alla variabilità dei mercati finanziari. Il valore di tutti questi prodotti è stabilito dalla contrattazione nelle borse di Londra, New York e Amsterdam, non certo nei Paesi colonizzati. Inoltre, come oggi sappiamo, le monoculture distruggono la biodiversità e sono troppo vulnerabili. I Paesi occidentali hanno organizzato le economie locali solo verso l’esportazione di materie prime e non sulla trasformazione in prodotti finiti: questa è una delle cause che hanno impedito un vero sviluppo, perché non hanno consentito l’industrializzazione che dà molto più valore aggiunto e fa acquisire tecnologia. Facciamo un esempio concreto: in alcune aree la produzione di fiori è in crescita ma nel recente passato si è assistito al paradosso di paesi in preda alla fame che contemporaneamente esportavano prodotti agricoli verso l’occidente.

La tragedia dell’Africa si può definire con una sola parola: sfruttamento. Per tre secoli gli europei non sono penetrati all’interno del continente: usavano gli arabi che assalivano i villaggi e organizzavano le carovane di schiavi fino al mare per essere poi trasportati a oriente verso il Golfo e l’Asia, e a occidente verso le Americhe. Le potenze coloniali hanno depredato tutto il continente. Ora si è aggiunta la Cina. Ancora oggi i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, gradita ai despoti africani perché fa investimenti e prestiti senza imporre alcuna clausola per proteggere la democrazia e l’ambiente.

I Paesi colonizzati hanno saputo attingere dalla cultura ancestrale gli elementi costruttivi della propria identità: la patria indiana per cui si batte Gandhi è una maharani indù, il Pakistan di Mohammed Ali Jinnah è «il paese dei puri» musulmani. l’Islam rappresenta, salvo le eccezioni di Siria e Irak, il principale riferimento dei popoli arabi alla ricerca dell’indipendenza.

Ma questi leaders sono prima di tutto degli intellettuali occidentali: il loro modello è lo stato nazionale; le loro ideologie sono derivate dall’Occidente. Ecco il paradosso del colonialismo: i valori di cui l’Occidente si è fatto portavoce contengono in sé la condanna dell’esperienza coloniale: basta pensare all’influenza del marxismo.

I valori repubblicani, il liberalismo imparato dalle élites indiane e africane ad Oxford o a Cambridge, l’efficienza, le forme di organizzazione politica e militare del colonizzatore sono diventate armi che il colonizzato ha utilizzato contro di lui. I partiti assicurano l’inquadramento politico e ideologico delle masse; eserciti formati sul modello militare occidentale combatteranno le lotte di liberazione; e fiorirà il commercio delle armi.

Nell’Occidente, sconvolto da crisi successive e dalle proprie incertezze, i popoli colonizzati trovano alleati: militanti anti-colonialisti, intellettuali progressisti, politici liberali. Un esempio tra tanti: pensate all’Angola, rifornita di armi dall’URSS per contrastare i Paesi occidentali. In ogni caso, anche prima della decolonizzazione, il colonialismo, arcaico in economia, non riformabile e moralmente insostenibile, aveva perduto anche nelle terre d’origine la battaglia delle idee.

CAMBIA IL PENSIERO DEI PAESI COLONIZZATORI

Il presidente Thomas Woodrow Wilson (in carica dal 1913 al 1921) sosteneva un internazionalismo idealista, favorevole alla diffusione della democrazia e la difesa dei diritti umani. Wilson voleva che il mondo del dopoguerra adottasse i principi dell’autodeterminazione dei popoli, la fine del colonialismo, la costruzione di una Lega delle Nazioni che avrebbe dovuto risolvere le crisi internazionali per prevenire i conflitti. E le sue idee gli fecero avere il premio Nobel per la Pace.

La Carta Atlantica, sottoscritta da F.D. Roosvelt e Winston Churchill nel 1941, conteneva il divieto di espansioni territoriali, l’autodeterminazione, il diritto alla democrazia e all’autogoverno, la pace era intesa come libertà dal timore e dal bisogno, rinuncia all’uso della forza, sistema di sicurezza generale che permettesse il disarmo. Affermava la libertà di commercio e di navigazione e il diritto dei popoli a vivere “[…] liberi dal timore e dal bisogno”. Ogni madrepatria ha colonizzato secondo criteri diversi. Le colonie stesse sono molto diverse: ci sono paesi di antica civiltà come l‘India e paesi di civiltà tribale come l’Africa nera; colonie di popolamento, considerate da minoranze europee come una vera e propria patria (Algeria, Sudafrica, Palestina, per non parlare dell’America del sud, decolonizzata fin dal secolo XIX) e pure e semplici colonie di sfruttamento; territori che dipendono direttamente dall’amministrazione coloniale e protettorati (Marocco, Tunisia) accanto a territori sotto mandato (Siria, Libano, Palestina), che godono di una cena autonomia.

Fino alla fine degli anni Quaranta raggiungono l’indipendenza, senza una guerra di liberazione, i paesi sotto il dominio inglese o olandese, le cui élites sono pronte da  tempo ad assumere il potere (Egitto, India e Pakistan). Negli anni Cinquanta la guerra fredda contribuisce a radicalizzare le posizioni. Nel sud-est asiatico (Indocina – Vietnam) e in Algeria, i colonizzatori accetteranno l’indipendenza dopo guerre condotte con grande violenza: questo spiega in parte il carattere oltranzista degli stati che ne sono derivati. Negli anni Sessanta (terza fase) si emancipa l’Africa nera.

Rimangono però pesanti residui del colonialismo: l’ apartheid in Sud Africa, (“separazione”) cioè la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del Sudafrica, e rimasta in vigore fino al 1991. Fu applicato dal governo sudafricano anche alla Namibia, fino al 1990 amministrata dal Sudafrica.

L’istruzione è l’arma più potente che puoi usare per cambiare il mondo

Nelson Mandela

Le vendite di armi dall’Occidente al Terzo mondo è in costante aumento, e gli USA sono il leader mondiale, seguiti da Russia, Francia, Germania e Cina. L’Arabia Saudita è diventata il principale importatore mondiale, con un aumento del 192%. Negli ultimi anni le importazioni di armi dell’Egitto, il terzo maggiore al mondo, sono triplicate (+206%). Sono cresciute pure le importazioni di armi da parte di Israele (+ 354%), Qatar (+ 225%) e Iraq (+ 139%).

UN CASO EMBLEMATICO: LA LIBERIA

Nel 1822 l’American Colonization Society con l’aiuto del governo degli Stati Uniti fondò una colonia sulla costa del golfo di Guinea, per mandarvi afroamericani liberati dalla schiavitù. Nel 1824 la colonia prese il nome Liberia e nel 1847 fu costituita come Repubblica indipendente con capitale Monrovia, in onore del presidente statunitense in carica al momento della sua fondazione.

Lo stato che si formò fu dominato da un’élite di liberiani provenienti dagli Stati Uniti. La loro cultura era occidentale: parlavano inglese, avevano introdotto la proprietà individuale della terra e istituzioni politiche sul modello statunitense, seguivano stili di vita americani, erano in maggioranza cristiani protestanti.

Il sistema politico liberiano, anche se la costituzione era ispirata da quella statunitense, discriminava la popolazione indigena alla quale non erano riconosciuti gli stessi diritti degli ex schiavi arrivati dall’America. Si formò una casta privilegiata, composta dagli afroamericani e dai loro discendenti, che deteneva il monopolio del potere politico ed economico. Il potere dal 1870 per oltre un secolo fu nelle mani dell’unico partito politico ammesso, il True Wigh Party.

Alla influenza britannica  si sommava un rapporto molto stretto con gli Stati Uniti, dipendente, oltre che dall’origine dell’élite liberiana, dai grandi investimenti di capitali americani. Fu realizzata una sistematica penetrazione incontrastata di capitali stranieri destinati allo sfruttamento e all’esportazione di materia prima dal suolo e sottosuolo dopo la spartizione dell’Africa svoltasi durante la Conferenza di Berlino (1884-1885).

Legname, caucciù e palma oleifera. Le risorse del sottosuolo sono eccellenti: ematite, magnetite, ferro, bauxite (alluminio), oro, diamanti. Ma le attività industriali ed estrattive furono quasi completamente gestite da gruppi statunitensi. Per la bassa imposizione fiscale e per l’assenza di norme restrittive di controllo delle transazioni finanziarie, la Liberia è inclusa tra i “paradisi fiscali”e possiede la seconda marina mercantile del mondo, dopo Panama, ma si tratta solo di una bandiera di comodo per le compagnie occidentali.

Le leggi dello Stato sono scritte attorno a questo sistema, che molti studiosi progressisti africani chiamano “capitalismo neo-coloniale”. Il sistema adottato è semplicissimo. Per sfruttare le ricchezze liberiane ci voleva mano d’opera  a basso coste, fornita dai liberiani, ma anche tecnologia che era posseduta dagli Americani, i quali imposero che le concessioni fossero date alle loro Aziende e a un prezzo quasi simbolico.

Questo sistema facilita l’acquisizione dei mezzi di produzione da parte delle multinazionali. Le multinazionali posseggono il ferro, la gomma, l’oro, il legname, i mega hotel, le telecomunicazioni, ecc… Arcelor Mittal, gigante mondiale dell’acciaio, è in Liberia, ma non produce acciaio. Sfrutta il minerale di ferro esportandolo nel suo stato grezzo verso economie avanzate. Firestone si trova in Liberia dal 1926, coltivando, raccogliendo ed esportando gomma nella forma di lattice.

Nei primi due decenni del Novecento il governo di Monrovia, radicato nelle regioni costiere, riuscì a imporre il suo controllo sui territori dell’interno del paese, abitati da diversi gruppi etnici indigeni che furono sottomessi al potere delle élite.

Ad aumentare il divario vi è l’elevato costo della vita dovuto principalmente alla mancanza di energia elettrica. Il sottosuolo della Liberia ha scarse risorse energetiche. «La poca elettricità che abbiamo la otteniamo con il petrolio d’importazione. I prezzi dei prodotti dei supermercati così aumentano perché devono coprire le spese dei generatori», dice un tassista. E se si pensa che lo stipendio di un insegnante liberiano si aggirava intorno ai 200 dollari al mese, si capisce come per la maggior parte della popolazione era impossibile accedere ai negozi di alimentari. Si ricorreva così ai mercati di strada e si mangiava carne proveniente dalle foreste: scimmie, iguane… Ed è anche per questo che l’ebola ha trovato terreno fertile.

Ecco una sintetica spiegazione del perché, anche dopo la decolonizzazione, i paesi africani non si sono sviluppati come noi: per il semplice motivo che le loro ricchezze hanno continuato ad essere gestite da noi.

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