Una domenica insolita

Steso sul divano, dopo una scorpacciata di polenta e gorgonzola annaffiata da un buon Merlot veneto, seguo con lo sguardo mio padre che entra in bagno lasciando la porta socchiusa. 

«Ti ricordi che voglio essere cremato, sì?!»

Ci risiamo, i soliti discorsi della domenica.

«Sì, ma…»

«Nessun ma, polvere alla polvere; sotto casa hanno aperto da poco un’Agenzia delle pompe funebri, ci vado io e…»

«… ti fai cremare, addirittura?»

«Va che te se propi stupit!» tira lo sciacquone. «Fenti Matteo, dammi un paffaggio fino al centro anziani, oggi l’Edoardo non viene, fai, la proftata gli dà di quei faftidi: oggi fi balla!» urla mentre spalma la pasta adesiva sulle protesi.

«Fi papà» lo canzono.

Zoppica e lo accompagno all’interno del locale. Gli siedo accanto nell’attesa che gli passi il fiatone.

«Oggi questa artrosi non mi dà tregua.» mi bofonchia all’orecchio.

Sul palco, in fondo alla sala, un musicista suona alla tastiera e intona una canzone anni sessanta.

«Papà, son quasi tutte donne, ma gli uomini…?»

«Vai, vai a vedere al cimitero dove sono gli uomini… hai visto che ci sono parcheggiate solo biciclette da donna?

Qualche rara coppia si avventura sulla pista. Le donne ballano fra loro. Le osservo, c’è quella tutta ingioiellata, quella con gonna di pizzo e spacco, una con scialle di lamé, un’altra appisolata sulla sedia. C’è il tipo affetto da calvizie con uno striminzito codino trattenuto da un elastico; un altro basso e tarchiato che balla con una donnona guardandosi intorno alla ricerca di consensi alle sue evoluzioni. Si abbassano le luci, una tattica affinché non si vedano troppo gli inesorabili segni del tempo sul viso. Una tipa si dirige verso di me con sguardo ammiccante, si avvicina dimenandosi. Si differenzia dalle altre che si somigliano un po’ tutte: grassocce, informi, con scarpe ortopediche. È molto, troppo magra, ha gambe rinsecchite, dita dei piedi a martello forzate dentro un paio di sandaletti rossi dai tacchi alti. Mi si piazza di fronte con le mani sui fianchi, arriccia la bocca a culo di gallina.

«Questo bel giovinotto non balla?» cinguetta vezzosa.

«Sì che balla!» risponde mio padre per me dandomi una spintarella sulla spalla. Riluttante mi trovo a ballare un valzer, ma sono un ballerino tanto improbabile quanto imbranato. È lei che guida con una certa energia. Dopo quel primo ballo ne segue un altro e un altro ancora. Ci prendo gusto. Mi butto nella mischia e faccio lo scemo. Sfilo il pullover e lo butto in alto, lo prende al volo la tipa mezza addormentata e se lo appoggia sulle ginocchia. Mi cimento in un assolo passando rasente alle donne sedute strappando loro gridolini entusiasti. Battono le mani in quel modo scoordinato come fanno i vecchi. Strappo un festone che pende miseramente lungo il muro, lo metto al collo, poi lo passo fra le gambe sentendomi protagonista di Full Monty. Rido, mi diverto come non mi succedeva da tempo. Il clou lo raggiungo dopo uno sfrenato Boogie Woogie con la donzella dai tacchi alti.

«Signore e signori, il pomeriggio danzante è terminato, grazie e arrivederci a domenica prossima.» annuncia il musicista dal microfono.

«Speriamo… di rivederci.» Si augurano i vecchietti fra baci e abbracci. Come se fosse l’ultima volta che si vedono.

L’arzilla ballerina mi abbraccia e per sbaglio mi infila una mano nella tasca della giacca.

Prendo sottobraccio mio padre:

«Dai, che ti accompagno a casa.»

«No, tu vai pure, che mi riporta l’Antonio.» L’Antonio annuisce complice.

Scommetto che questi due si fermeranno alla Casa del Popoloa farsi un cordialino.

Li saluto, prendo le chiavi della macchina dalla tasca e trovo un biglietto: un numero di cellulare.

Hai capito la vecchietta? Finché c’è vita, la speranza non demorde mai!Lo appallottolo e lo butto dal finestrino.

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