Proclus Lycius Diadochus fu l’ultimo filosofo neoplatonico del paganesimo o, se si vuole, il primo del Medioevo.

Era nato a Costantinopoli all’incirca nel 412 e visse prevalentemente la più famosa scuola di filosofia del mondo.
All’epoca le opere di Aristotele andavano per la maggiore, la sua Metafisica era un vero bestseller, ma tutto sommato era la meno capita. Così un bel giorno Proclo e Siriano che era il suo maestro decisero di smetterla con Aristotele e di passare a Platone che era molto più chiaro. Divenne così uno dei più grandi pensatori sistemici del neoplatonismo, tant’è che Hegel definirà, secoli dopo, la sua opera
l’apogeo della filosofia neoplatonica.
I suoi scritti più importanti sono i commenti ai dialoghi platonici: Timeo, Parmenide, Cratilo, La Repubblica e Alcibiade primo.

Proclo non trascurò Euclide tant’è che il suo commento al primo libro degli Elementi di Euclide è stato una delle fonti principali per la storia della geometria. Coltivò interessi poliedrici che ne fecero non solo un filosofo e un teologo ma anche un sacerdote, un teurgo, un poeta, un matematico e un astronomo. I suoi Elementi di teologia costituiscono il primo tentativo di applicazione del metodo della dimostrazione euclidea alla metafisica. Secondo lui (vedasi il Commentario al Timeo) il discorso filosofico deve sempre procedere seguendo lo schema del ragionamento geometrico ma avendo cura di esprimere le argomentazioni con chiarezza e comprensibilità. Un gran bel consiglio quello ella chiarezza e comprensibilità che lui però non sempre adottò basta citare la sua Teoria dell’Essere. Per Proclo l’Essere ha tre momenti fondamentali:
- Il Monè, cioè il permanere in sé,
- Il Próodos, vale a dire l’uscire fuori di sé,
- L’Epistrophè, ossia il tornare in sé.
Si può tentare di dirla così: l’Uno è quello che è ed è uguale a sé stesso e di lui non è possibile dare alcuna definizione perché tentare di definirlo equivarrebbe a diminuirlo. Per taluni l’Uno è Dio, per altri è ciò che nella vita non cambia, per altri ancora è il principio e la fine. L’Uno però si manifesta nel creato, e per farlo esce da sé e in tal modo cresce di valore. All’ultimo stadio l’Uno torna in sé e si identifica con l’eternità. Dubito che sia chiaro, tentiamo quindi un’altra strada: noi siamo esseri umani, siamo quel che siamo, però vivendo cresciamo di valore perché conoscendo altri esseri, a noi simili impariamo da loro. Nell’ultima parte della nostra vita entriamo in una nuova fase avvicinandoci a Colui che ci ha messo al mondo. Oltre a questo non posso fare, se non dire che oltre alla presenza divina, per Proclo ci sono nell’uomo delle forze che attraggono e altre che respingono che lui chiama “Simpatie” e “Antipatie” determinanti nei rapporti con gli altri.
Insomma non è che Proclo abbia detto chissà che, lo sappiamo tutti che ci sono persone che ci stanno simpatiche ed altre che non possiamo sopportare, e che col passare del tempo apprendiamo, socializziamo e poi, con gli anni, peggioriamo all’esterno e miglioriamo al nostro interno. Quello che è significativo e che proprio a cominciare da lui i filosofi medioevali iniziarono a sentire un gran bisogno di conciliare i pensatori greci, Platone in particolare, col senso del divino cristiano. Alla fin fine quel che ci insegna Proclo è di preoccuparci più dell’anima che del corpo, nella vita qui sulla terra, ci dice, è già stato deciso tutto, per quanto concerne la vita ultraterrena, invece, tutto è ancora in sospeso, sta a noi decidere il tipo di eternità che ci piacerebbe di trascorrere. Come dire: facciamo i bravi e saremo premiati. Proclo morì ad Atene nell’ aprile del 485, e per sua volontà venne sepolto accanto a Siriano. Sulla sua tomba volle questo epitaffio:
Io, Proclo, fui Licio di stirpe, e Siriano mi formò per succedergli nell’insegnamento. Questa tomba accolse il corpo d’entrambi; oh, se un solo luogo ricevesse anche le anime!
