Tanti sono gli autori che hanno trattato della follia: Ariosto e l’insensato inseguimento di Orlando ad Angelica; Konrad e la pazzia del nero cuore di Kurt; Pirandello e il consapevole esilio del suo Enrico IV; il dantesco folle volo di Ulisse al di là del confine di ciò che è noto e possibile.
Dante ci fornisce, proprio con Ulisse, il suo concetto di follia: all’uomo sfugge l’essenziale e si perde follemente in occupazioni vane che lo smarriscono nella selva del peccato. Egli ha sperimentato di persona la superbia intellettuale, l’avere voluto cercare risposte ai troppi dubbi della mente, senza rassegnarsi al fatto che l’ultima verità la si attinge unicamente dalla Grazia che è premio della Fede e si è smarrito nella sua personalissima selva e quando viene soccorso da Virgilio, che gli propone il salvifico viaggio, dubita di esserne all’altezza e il maestro lo deve rassicurare, dicendogli che rinunciare per ignavia al viaggio sarebbe peccato simmetrico a quello di superbia. Allo stesso modo, per troppa fiducia nel proprio ingegno, pecca Ulisse che ormai “tardo” (vecchio), spera di potere arrivare all’ultima verità, al segreto “de li viziumani e delvalore”. Il “folle volo” è tale perché Ulisse presuntuosamente crede di non avere bisogno di alcuno per intraprendere un viaggio verso una verità che non può essere toccata dalla superbia umana. Dante si ricorderà di Ulisse nel canto introduttivo del Purgatorio “mi dolsi e ancor mi dolgo” e ancora quando sta per giungere alla visione di Dio, dopo che San Pietro lo ha definitivamente investito del compito di raccontare quanto ha potuto vedere nel suo viaggio e si volge verso la terra e scorge “il varco folle” di Ulisse, il suo alter ego, l’eroe più grande che non ha saputo accontentarsi dei limiti posti alla mente umana e per questo sprofondato agli inferi. Per Dante, uomo del medio evo, follia non è altro che l’errare, ossia il vagare dell’uomo lontano dalla via che salva. Non v’è dannato nella Commedia che sia salvo dalla follia, non solo Ulisse ma Paolo e Francesca travolti dai lori folli sensi e Ugolino che nella pazzia della fame divora i figli, estrema metafora della bramosia che tutto distrugge e divora.

Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, patrizio di Pisa, vicario di Sargegna, fu uno dei politici più in vista di Pisa, militava tra i guelfi ed il suo nemico acerrimo Ruggeri degli Ubaldini, Arcivescovo di Pisa, era a capo della fazione ghibellina. Era l’epoca delle sanguinose lotte fratricide tra città e Ugolino, capo della flotta navale pisana, si trovò in guerra contro Genova che mirava ai possedimenti sardi di Pisa. La flotta pisana venne sconfitta a Capo Meloria e la colpa ricadde su di lui, che venne accusato di tradimento. Con le trattative di pace non andò meglio, Pisa si vide presentare un conto salato che comprendeva anche la cessione di Castel di Castro (oggi Cagliari) in cambio dei prigionieri di guerra pisani. Tra questi vi erano quasi tutti i capi della fazione Ghibellina e forse fu questa la circostanza che spinse il Contea rifiutare. Da quel momento cominciò ad esser visto dai suoi concittadini non solo come un traditore di guerra ma anche come un traditore politico. Quando venne accusato dell’assassinio di un nipote di Ruggeri, per lui fu la fine, l’Arcivescovo lo fece imprigionare con figli e nipoti nella Torre della Munda e lì lasciati a morire di inedia.
Non è affatto provato che abbia davvero divorato i suoi figlioli, la triste fama gli è stata appiccicata da Dante che lo colloca nella Antenora, la seconda zona del nono cerchio dell’Inferno, ove sono puniti i traditori della Patria e dove egli appare come un folle vendicatore che brutalmente divora la testa di Ruggeri. Il Conte Ugolino è posto tra i traditori eppure per tutto il canto Dante ce lo fa vedere come tradito, solo in una terzina lascia intendere che fosse stato un traditore per aver ceduto territori e possedimenti al nemico “… che se’l conte avea voce di aver tradita te de le castella, non dovevi tu i figliuoli porre a tal croce..”. Ma per Dante, più che traditore politico egli è traditore della natura umana, incapace di perdono tradisce il comandamento di Dio e follemente distrugge se stesso mentre crede di poter godere della vendetta inflitta al suo aguzzino. Tenta, il Conte Ugolino, giustificazioni al suo folle agire ma non suscita quella pietà che suscitano gli altri dannati: l’odio politico lo ha reso una fiera cieca e folle non meno crudele di quanto sia stato il suo carnefice.
A estrema damnatio memoriae l’abitazione pisana del Conte Ugolino, sul lungarno, venne abbattuta e fu sparso sale sul terreno perché nulla vi crescesse. Ancora oggi ove si trovava è l’unico spazio verde sulla sponda meridionale del Lungarno Galilei di Pisa.

L’ha ripubblicato su l'eta' della innocenza.
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