Dov’è finito l’impegno civile e sociale della Letteratura novecentesca? E’ semplicemente imploso oppure ha cambiato obiettivi?

Per millenni artisti, poeti e scrittori hanno dipinto, scolpito e scritto col solo intento di compiacere munifici committenti, fossero essi papi, granduchi o danarosi borghesi. Da un certo momento in poi, orfani di mecenati, gli artisti, soprattutto gli scrittori, hanno sentito come impellente l’esigenza di avere qualcosa o qualcuno da servire: il bene comune, la morale della società, l’opposizione al sopruso o alla tirannia.
Basta scorrere la Storia della Letteratura degli ultimi due secoli per rendersene conto, prendiamo ad esempio i romanzieri dell’Ottocento, diversissimi tra loro ma accomunati da un idem sentire improntato ad un umanesimo progressista. Non v’è romanzo di Zola, di Dickens o di George Eliot che, col pretesto di intrattenere il lettore, non denunci le intollerabili diseguaglianze sociali dell’epoca. È stata poi la volta delle Avanguardie Novecentesche urlanti contro il vecchiume che a loro dire ingessava l’Arte riducendola ad un mero esercizio estetico. Si propugnava il mondo nuovo da rifondare su canoni estetici capaci di coniugare Freud al sol dell’avvenire che avrebbe dovuto spuntare alle spalle dell’Ancien Régime.

Caso a parte tra le Avanguardie filosofiche e politiche novecentesche se lo è guadagnato Jean-Paul Sartre il cui impegno è stato talmente pedissequo da non dar spazio a null’altro. Rileggendo oggi il suo saggio Cos’è la letteratura, edito nel 1947, si resta sconcertati nel constatare come vi convivano idee intelligenti e insulsi postulati da propaganda elettorale. Scrivere che
solo in una società senza classi la letteratura prenderebbe finalmente coscienza di sé
significa postulare una tesi così vaga da non poter neppure essere confutata. Non c’è quindi da stupirsi se Sartre abbia annoverato tanti nemici, lui non ha salvato niente, ne aveva per tutti: moralisti, illuministi, classici e decadenti avanguardie. Li inchiodava tutti al peccato originale della non partecipazione, della diserzione morale. Per lui lo scrittore doveva intervenire continuamente nella società per imprimere un moto di mutamento irreversibile, così scriveva sulla rivista Temps Moderns:
è nostra intenzione concorrere a produrre mutamenti nella società che ci circonda.
In nome di tale causa superiore, per Sartre tutto diventava lecito, anche la menzogna e la mistificazione per mortificare l’avversario ed anche scrivere alcuni romanzi davvero brutti.
E oggi? Cosa ne è del caro e vecchio impegno?

A prima vista parrebbero sparite le ideologie tanto care al Novecento e che hanno ispirato generazioni intere di scrittori e lettori, ma non è esatto, l’impegno c’è ancora, ha solo cambiato obiettivi rispetto a quelli di Sartre o Pasolini. Il neo-impegno oggi si trincera dietro una spessa coltre di perbenismo e di neo-puritanesimo tipico di un certo presupposto progressista. Se nell’Ottocento il nemico era la disparità sociale e nel Novecento era il tradizionalismo, oggi la Letteratura, così come il Cinema ed il Teatro, tende quasi unicamente ad evitare che l’opera prodotta abbia un impatto dannoso sui lettori o sugli spettatori avvicinandoli ad idee pericolose, quali il maschilismo, il razzismo, la disparità di genere. Insomma colui che scrive diviene censore di sé stesso e si fa controllore della fruizione dell’Arte attraverso una deleteria cancel culture che ultimamente va mietendo vittime ovunque. Da questa prospettiva tutta la Letteratura occidentale dovrebbe essere sottoposta a revisione critica a partire dall’Iliade che comincia con due maschi che litigano per decidere a chi tocca possedere una schiava; il romanzo moderno inizia con Robinson Crusoe e con un uomo bianco che libera un uomo nero ma subito se lo fa suddito imponendogli un nome che non è il suo e convertendolo alla propria religione. Vista così tutta la Letteratura del passato gronda di presupposti che oggi non sono più condivisibili tant’è che recentemente i professori di Princeton hanno raccomandato alle autorità accademiche di vietare i classici greci e latini perché “invischiati di supremazia bianca”.
Il problema è che il rigore morale dell’impegno insidia il nucleo più profondo dell’Arte.

Non solo i classici vengono sottoposti a damnatio memoriae ma anche ogni manufatto artistico. Oggi giorno l’artista è obbligato a conformarsi alla nuova sensibilità imposta, se vuole emergere deve adeguarsi all’aria che tira, poiché le scomuniche inflitte dal politicamente corretto sono all’ordine del giorno. Ne deriva il diffondersi di libri colmi di desiderio di rendere migliori i lettori rassicurandoli ed indicando loro la strada maestra sul falsificato assunto che da soli non saprebbero trovarla. Fino a pochi decenni fa l’autore non si sarebbe chiesto se il personaggio che intendeva mettere in scena potesse o meno urtare la sensibilità di qualcuno, invece oggi capita sempre più spesso e l’autore deve purgare il testo o occultare il messaggio che intende trasmettere sotto vari strati di falso manierismo.

Sorge spontanea un’ulteriore domanda, in quest’aria da controriforma che fine ha fatto lo stile?
Anche qui c’è una stretta relazione tra le aspirazioni umanitarie e non prive di intenti proseliti, degli autori neo-impegnati e la povertà stilistica che contraddistingue i loro lavori. Il neo-impegno si compiace di questa sorta di suicidio formale poiché le intenzioni virtuose hanno quasi sempre la meglio sulla prosa. Scarni gli stilemi dei neo-impegnati, elementari le figure retoriche sia di parola che di pensiero, la leggibilità scorrevole è più apprezzata dei contenuti che, quando ci sono, si limitano ad essere dei didascalici breviari.
È difficile dire quali saranno le implicazioni epocali di questo stravolgimento estetico, una cosa è certa questo volere convincere e il continuo indicare i nemici da combattere, quasi che il lettore sia un bimbo da educare, attenta al nucleo più profondo dell’Arte, il suo più intimo tesoro: il dubbio, l’ambiguità e la controversia.
Per dirla con Goethe “la verità è sempre stata dalla parte di pochi”.
