Dante: poeta e profeta visionario

Dante è, senza ombra di dubbio, una delle figure più carismatiche del panorama culturale italiano. I livelli di lettura delle sue opere sono talmente tanti che sembra difficile esaurire la ricchezza che tramandano.


Parlare ancora di Dante!?! In questi anni ne hanno parlato e scritto tutti, proviamo allora a parlarne di nuovo ma sotto una diversa luce. Marcello Ficino, che nel 1468 tradusse dal latino in volgare il De Monarchia lo definisce

per abitatione florentino,… in professione philosopho poetiche. 

Poche parole e c’è tutto. Dante aveva riposto le sue speranze e il suo sogno di una monarchia universale nel sacro romano imperatore Enrico VII (o Arrigo, in volgare italiano) di Lussemburgo, al quale volle dedicare il suo saggio politico De Monarchia in tre tomi, ma Arrigo, a nemmeno quarant’anni, era morto (forse avvelenato) l’anno prima a Buonconvento.

Dante, quindi, non fu solo poeta; fu anche filosofo, pensatore politico e profeta. Così lo definiscono Giovanni Gentile e Giovanni Papini nei loro saggi, entrambi editi nel 1933, La profezia di Dante e Dante vivoPapini paragona Dante ad un profeta ebreo, ad un sacerdote etrusco e ad un imperialista romano: profeta per i suoi annunci messianici, etrusco per il suo viaggi nel regno dei morti e imperialista romano perché considerava Roma la sua patria vera e l’impero, impersonato da Arrigo VII, il necessario orizzonte fatto di giustizia e finalmente di unità italica.

Per tutta la vita Dante lottò contro il presente che vedeva guasto e corrotto, si rifugiò con nostalgia nel passato e guardò con speranza al futuro. Nostalgia e messianesimo insomma. Nelle sue opere traspare tutta la sapienza orientale, il logos greco, la caritas cristiana e la civilitas romana, il suo cuore è con Sant’Agostino e Platone, la sua mente è tomistica ed aristotelica.

Certo questo non è il Dante che abbiamo conosciuto a scuola, la didattica imponeva quei suoi versi alieni ma ne sacrificava la grandezza, in effetti Dante lo si apprezza molto di più lontano dalla scuola perché lì tra quei banchi volgevamo spesso solo alla noia. Comunque sia del Dante oggetto del piano di studi resta un bizzarro privilegio, egli è infatti l’unico autore che tutti chiamiamo per nome, privilegio riservato solo ai grandi artisti, agli antichi o ai santi. Taciamo, poi, del Dante rivisitato come reazionario dalle moderne avanguardie e delle stigmatizzazioni iconoclastiche della odierna cancel culture. Anche il Sommo Poeta doveva pagare il suo  grottesco pegno all’epurazione di massa della cultura ad opera del politicamente corretto, operazione che sta provocando la più massiccia riscrizione della Storia, mai riuscita nemmeno alle più feroci teocrazie di tutti i tempi.

L’Italia del Risorgimento, quella di De Sanctis e Carducci impose il culto di Dante, il filologo Ruggiero Bonghi e l’irredentista triestino Giacomo Venezian idearono e proposero la Società Dante Alighieri, che venne poi fondata nel 1889 da un gruppo di intellettuali guidati da Giosuè Carducci. Il fascismo lo celebrò come precursore della risorta romanità (un verso dell’inno Giovinezza ne inneggiava la visione) ma nessun poeta o scrittore, per quanto grande, nemmeno il vate D’Annunzio, osò mettersi a suo pari. Casomai sulla sua scia filosofico-letteraria si pose la letteratura anglosassone con John Milton, Thomas Eliot ed Edgard Lee Master col suo Spoon River.

Il sogno politico di Dante, espresso nel De Monarchia, si infranse sul fallimento imperiale di Arrigo VII, poi quell’opera venne addirittura messa al rogo, con l’accusa d’eresia, nel 1329 dal Cardinale Bertrando del Poggetto. Dante era già morto da otto anni ma la tentazione di una postuma damnatio memoriae lo insidiò ancora per lungo tempo. Infatti nel 1559 il Sant’Uffizio pose l’opera all’indice e la condanna venne confermata ad ogni nuova edizione sino alla fine del XIX secolo. Bisogna arrivare al 1921 e all’Enciclica In Praeclara Summorum dedicata da Papa Benedetto XV

ai diletti figli professori ed alunni degli istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico in occasione del VI centenario della morte di Dante Alighieri

per trovarne riabilitazione nelle parole:

E voi, cari ragazzi, che avete la gioia di dedicarvi, sotto la guida del magistero della Chiesa, allo studio delle lettere e delle arti, continuate – come già state facendo – ad amare e ad interessarvi di questo nobile poeta che Noi non esitiamo a chiamare il più eloquente panegirista e cantore dell’ideale cristiano.

Ma in vita le speranze di Dante furono sempre destinate ad essere deluse, nel Convivio, dolente per l’esilio inflittogli, diceva ai fiorentini del suo desiderio di poter tornare a quella sua Firenze, figlia di Roma, per potere alfine riposare l’animo stanco e terminare “il tempo che m’è stato dato”. Vano desiderio, le sue spoglie mortali rimasero a Ravenna.