Ho Paura Torero è un romanzo di Pedro Lembel dal piacevole sapore divertente e irriverente, fa pensare e ci trasporta nell’emotività di un Cile oppresso dalla dittatura. Claudio Longhi lo porta in scena con Lino Guanciale e ne dà la sua edizione teatrale.
Ho paura torero è un’opera onirica e sognante, drammatica, struggente come un ultimo saluto, capace di divertire, commuovere ed arrivare al cuore, pervasa d’amore, di passioni, di erotismo: rappresenta il trionfo dei sentimenti sui pregiudizi, sulle barriere e sulle meschinità.
Una trasposizione teatrale fedele al testo senza omissioni o reintepretazioni che vede protagonisti la Fata dell’angolo e Carlos.

La prima, la Fata dell’angolo, la loca, la checca, una fata ignorante come direbbe Ferzan Ozpetek, un travestito passionale e canterino: il suo pezzo preferito è Tengo Miedo cantato da Lola Flores, appreso dalla radio.
E canta, canta sempre aprendo le finestre
Ho paura torero, ho paura che stasera il tuo sorriso svanisca.
Fa la sartina delle signore dei quartieri alti, vive in un mondo tutto suo costruito nell’illusione di dimenticare la brutalità subita per la sua omosessualità, punita dal padre, “uomo vero”, canzonato dai suoi compagni, con un vero e proprio abuso sessuale in tenera età per correggere il figlio, finocchio.
L’altro un giovane idealista impegnato nella lotta clandestina contro il dittatore, spietato assassino di dissidenti “comunisti” torturati e uccisi e fatti scomparire, i desaparecidos: migliaia e migliaia di persone, uomini, donne, ragazzi scomparsi nel nulla dopo l’arresto.
Siamo nel 1986 in Cile in piena crisi economica, sociale e politica: la privazione di libertà frena anche lo sviluppo economico.
La protesta alza la voce, si estende attraverso la radio, Radio Cooperativa, consolazione di solitudini, protagonista anch’essa della vicenda, contro la feroce dittatura, nata dal colpo di stato del Generale Augusto Pinochet contro il Presidente Salvator Allende.

Il sipario si apre con l’ultimo discorso di Allende dal palazzo della Moneda dove si consuma il tragico epilogo della democrazia: suicidio o omicidio?
È l’11 settembre 1973: da quel momento il Cile viene travolto dalla sanguinaria dittatura del generale Augusto Pinochet, presentato sulla scena come un uomo insignificante, annoiato, tormentato da incubi d’infanzia, vessato da una moglie, Doña Lucia, vanesia e logorroica.
Il dittatore va e viene dal proprio retiro di Cajón del Maipo a Santiago finchè un giorno la sua strada si incrocia con quella della Fata e di Carlos che, in una giornata di sole, si concedono un non casuale picnic, giornata dai risvolti sentimentali, pieni di gioia e di aspettative.
La Fata dell’angolo ospita nella sua soffitta Carlos, militante del Fronte Patriottico Manuel Rodriguez che la trasforma nella sede dei dissidenti, trasportando casse pesanti dal contenuto oscuro. Alle domande della Fata, Carlos risponde sempre “fallo per me, poi ti spiego”.
La Fata non avrà mai risposte ma avrà il sogno d’amore, proprio lei, ormai vecchia, sdentata, con i capelli radi si invaghisce del giovane che a suo modo la corrisponderà portandola a fare un picnic dove saranno scorti dal dittatore che ne immaginerà il rapporto “sono due finocchi, sono due finocchi” esclamerà.
L’acme del sentimento giungerà alla festa di compleanno che la Fata organizzerà per lui in modo del tutto sorprendente e luccicante che commuoverà il giovane.

Intorno a loro ruotano altri personaggi, Lupe, Fabiola, Rana, tutti omosessuali, senza più sogni, disincantati, disillusi.
Pian piano la Fata prende coscienza della realtà che la circonda, si ribella a suo modo alle angherie, alle prepotenze cui il potere la sottopone: si rifiuta di consegnare alla moglie di un generale una tovaglia da lei finemente ricamata , che sarebbe stata usata per festeggiare il giorno del golpe e si avvicina con il cuore alla causa politica.
È il preludio della rinascita e del riscatto da anni di umiliazioni e soprusi subiti: partirà con Carlos verso un domani oscuro e nel taxi si sostituisce alla radio cantando:
Hanno i suoi disegni
piccole figure
uccelline pazze che vogliono volare.
È il sogno d’amore che conclude lo spettacolo magnificamente interpretato da Lino Guanciale che si è messo in gioco in un ruolo difficile anche per un artista così dotato: cambiamenti di voce, ora stridula da checca ora profonda per mascherare il suo vero io, movenze femminili, abbigliamenti originali, vestaglie lunghe lussureggianti.
Intorno a lui si muovono con grande capacità interpretativa il dittatore Pinochet e sua moglie Dona Lucia, Mario Pirrello e Arianna Scommegna, che risultano efficaci nel ruolo ironico ai limiti della satira.
Come un flash torna alla memoria il film Il bacio della donna ragno, diretto nel 1985 diretto da Hector Babenco, tratto dal libro di Manuel Puig e magnificamente interpretato da William Hurt, che vinse l’Oscar, e da Raul Julia.
Il film affronta, forse per la prima volta, il tema dell’omosessualità vissuta negli anni Settanta in un carcere argentino che contrappone due persone: un omosessuale e un dissidente politico.
Tra loro si instaura una relazione che oscilla tra sogno e realtà che porterà entrambi alla consapevolezza del proprio destino in un crescendo di confidenze reciproche fino alla conclusione drammatica della loro vita.
