Anselmo d’Aosta

Anselmo d’Aosta è stato uno dei pensatori più eminenti della sua epoca. Le sue opere hanno creato scompiglio tra teologi e filosofi e dopo ottocento anni sono ancora dibattute e discusse.


Ontologia viene dal greco e significa Studio dell’essereI greci dicevano “estí òti estí” (traduzione: è perché è) e Anselmo d’Aosta può considerarsi il più grande divulgatore della ontologia medioevale dato che si sforzò sempre di convincere che

Essere è in quanto è.

Pare complicato e in effetti lo è.

Tutto cominciò in Grecia nel V secolo a.C. quando Parmenide, che era ad Atene per un’ambasceria, pronunciò, davanti ad un giovane Socrate stupito dalla sapienza di quel suo interlocutore, la frase:

L’Essere è, il non Essere non è.

Da qui arriviamo dritti ad Anselmo e il primo problema che ci troviamo di fronte è come chiamarlo perché per noi è Anselmo d’Aosta, per i francesi è Anselmo di Bec e per gli inglesi è Anselmo di Canterbury. Cerchiamo di fare un po’ d’ordine: è certo che nacque ad Aosta all’incirca nel 1033, fu abate del Monastero di Notre Dame du Bec e Arcivescovo di Canterbury, e così si spiega  perché tutti hanno cercato di dargli un nome diverso.

Anselmo fin da bambino era pervaso da un forte sentimento religioso e voleva farsi frate, tutti a casa, a cominciare dal padre, Messer Gandolfo governatore di Aosta, cercarono con ogni mezzo di dissuaderlo. La vocazione però è vocazione e così Anselmo se ne andò di casa, arrivò fino in Normandia e venne accolto nell’Abbazia di Bec, famosa per la sua scuola di teologia. I progressi negli studi furono così rapidi e brillanti che presto entrò nelle grazie dei suoi maestri e nel 1063, quando aveva appena trent’anni, venne eletto Priore dell’Abbazia. Dalla Normandia si trasferì in Inghilterra a Canterbury e ne divenne l’Arcivescovo.

Anselmo scrisse molti trattati, quasi tutti, come si usava allora, sotto forma di dialogo: il Monologion (Soliloquio) un dialogo con sé stesso e il Proslogion (Colloquio) un dialogo con gli altri. Scrisse anche una trilogia dedicata ai problemi della Verità, del Male e della Rettitudine e del Libero Arbitrio: De VeritateCasu Diaboli e De libertate arbitrii. All’inizio fu un po’ incerto e debuttò male perché nel Monologion scrisse

intelligo ut credam

Traduzione: comprendo per credere

e si tirò addosso critiche da ogni parte, si corresse nel Proslogion asserendo

credo ut intelligam

Traduzione: credo per capire

e mise a posto le cose. Per quanto concerne il credere in Dio, Anselmo dice

tra tutte le cose esistenti ce n’è sempre una più grande delle altre: un vegetale è inferiore rispetto all’animale e l’animale è inferiore all’uomo e l’uomo è inferiore al suo Creatore che è l’essere perfetto, il più grande cui si può pensare.

Dal momento che il Creatore è perfetto

non si può supporre che sia privo del requisito più grande: quello di esistere.

Anselmo elaborò un ragionamento complesso e lo espresse in modo semplice e inevitabilmente, si attirò critiche dai postumi tra i quali Cartesio, Spinoza, Leibniz e lo stesso Kant che lo disapprovò dicendo che così si banalizzava la prova dell’esistenza di Dio e non in via di un ragionamento ontologico bensì tautologico (cioè lapalissiano). Fior di teologi precedenti e posteriori ad Anselmo sostennero sempre l’impossibilità di poter fornire una prova scientifica o di ragionamento all’esistenza di Dio, solo la Fede può riuscirci e la Fede non è speculazione intellettuale.

Ottocento anni dopo Francis Bradley riprende l’argomento nei suoi studi sulla metafisica e nella sua Apparenza e Realtà (1893) sostiene  che

tutto quello che è possibile è. Se siamo capaci di pensare ad una cosa vuol, dire che questa esiste.

In parole povere la realtà per Bradley è sentita come unità ed è ben evidente nella percezione primitiva che precede l’elaborazione concettuale, è nella sensazione immediata che si percepisce l’unità del tutto, prescindendo addirittura dalla distinzione tra soggetto ed oggetto. Sono passati più di duemila anni e ricompaiono le ombre della caverna di Platone: le immagini che appaiono sulla parete riguardano cose esistenti, perché se le vediamo vuole dire che c’è qualche cosa che cammina dietro di noi.

Però Platone, quando ci diceva del Mito della Caverna, era più chiaro di Anselmo d’Aosta.