Il paradiso guadagnato passando per l’inferno, questo è Dostoevskij, la certezza che la felicità, quella vera, deriva solo dalla sofferenza e dal sacrificio. Una convinzione dolorosa di cui lo scrittore russo fu narratore e testimone.
Non si può non cogliere nella sua stessa esistenza e nelle sue opere la dimestichezza coi demoni, la vicinanza all’abisso, la comunanza col male, la perdizione come occasione di salvezza e di redenzione.
Tutti i suoi personaggi vivono nell’agitazione dell’anima e le passioni plasmano le loro figure, anche i loro volti sono espressione dei loro stati d’animo. Qualcuno ha detto che Dostoevskij è lo scrittore del sottosuolo, ed è vero, poiché il sottosuolo è metafora della profondità dell’anima. Nel sottosuolo si sopravvive arroccati al proprio io, nella negazione di ogni spiraglio di cielo. Nel sottosuolo di Dostoevskij vive (o meglio sopravvive) l’uomo nichilista privato sia del cielo che della terra e di ogni orizzonte trascendente.
L’umanità alienata di Dostoevskij non si redime con la rivoluzione, e lui critica le utopie rivoluzionarie del suo tempo
quel regno astratto che non è mai esistito ma che recide ogni legame col popolo.
Una profezia critica del bolscevismo attraverso la critica ai propugnatori, suoi contemporanei, della rivoluzione
Questa gente astratta esprime uno sconfinato amore per l’umanità, intesa in senso generale, ma se poi l’umanità si incarna in una persona concreta, allora non riescono a tollerarla.
In un altro scritto critica il sogno settecentesco di Rousseau
di rifare daccapo il mondo con la ragione
o meglio, con un astratto concetto di ragionefino al punto di tagliare le teste
perché è la cosa più facile da fare, non potendo cambiarle.
Per Dostoevskij l’amore per l’umanità non è concepibile senza fede nella immortalità dell’anima, perché senza di essa i legami con la terra si recidono, si smarrisce il senso superiore della vita e si cade nella disperazione che porta al suicidio o al delitto. A questa figurazione del nichilismo lo scrittore oppone l’idea di un grande risveglio religioso che porti ad un vero rinascimento dell’animo russo. Ma non c’è redenzione senza croce, questa è la terribile visione di Dostoevskij, martire di sé stesso, nella disperata ricerca di Dio che non trova, profeta tra l’attesa di Dio e la visone del nulla.
Fëdor Dostoevskij morì nel gennaio 1881 a San Pietroburgo, nello stesso appartamento che oggi è il museo a lui dedicato. Sul letto di morte chiese che la parabola del Figliuol Prodigo venisse letta ai suoi. Scrive Joseph Frank:
Fu questa parabola di trasgressione, pentimento e perdono che volle trasmettere, come ultimo lascito ai suoi figli. Una presa di coscienza finale sul significato ultimo della sua vita e della sua opera.
Nelle mie conferenze e nei miei articoli racconto la Storia, ben conscio che tutto quello che racconto è già stato raccontato. Io spero solo di farlo in maniera più semplice mettendo i fatti e i protagonisti sotto una luce più vera, togliendo loro quei severi paramenti sotto cui sono stati, da sempre, paludati dalla dottrina accademica tradizionale. A tanti potrebbe parere una ambizione modesta. A me no. Io mi sento orgoglioso quando riesco ad appassionare alla storia chi mi segue.
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