Lo studio delle modalità di formazione delle stelle è una branca dell’astrofisica abbastanza recente, nata solo agli inizi del XX secolo, grazie ai mezzi di osservazione sempre più sofisticati messi a disposizione dai progressi della tecnologia.
Le ipotesi sulla formazione delle stelle risalgono, però, a quasi quattro secoli fa. Nel 1644 Cartesio fu tra i primi a supporre che le stelle abbiano origine dalla materia cosmica, in seguito all’azione di vortici che ne provocano la contrazione. Il modello venne poi ripreso da Kant e perfezionato da Laplace nel 1796. L’ipotesi prevedeva che il Sole e i pianeti si fossero formati da una stessa nebulosa primordiale (la nebulosa solare nel caso del sistema solare). Il modello attualmente più accreditato, detto modello standard, si rifà, pur con sostanziali modifiche, all’ipotesi di Laplace.
La nascita della stella
Secondo il modello standard, una stella nasce dal collasso gravitazionale delle porzioni più dense di una nebulosa, da cui ha origine un “embrione stellare”, che in seguito accresce la propria massa attirando a sé il materiale circostante. Ma vediamo più in dettaglio che cosa prevede questa teoria.
Le stelle sono formate principalmente da idrogeno, che viene utilizzato per produrre, mediante il processo di fusione, l’energia necessaria a contrastare le forze gravitazionali che tendono a farla collassare. Affinché una stella si possa formare è quindi necessaria una fonte abbondante di idrogeno, che si trova facilmente nel mezzo interstellare e in particolare nelle nebulose.
Si ritiene perciò che le nebulose siano l’ambiente ideale per la formazione delle stelle, in particolare le fredde nebulose oscure che, a causa della loro bassa temperatura, non sono in grado di contrastare l’effetto della gravitazione irraggiando energia termica e quindi tendono ad addensarsi sempre più. Inoltre i granuli di polvere presenti nelle nubi favoriscono la formazione di molecole di idrogeno biatomiche, dando luogo così ad una nube molecolare. Assieme alle nebulose oscure, le nubi molecolari costituiscono il luogo d’elezione per la nascita di nuove stelle.
Verso la metà del 1900,l’astronomo olandese Bart Bok confermò questa ipotesi, affermando che alcuni aggregati di polveri oscure appartenenti alle grandi nubi oscure, fossero sede di attiva formazione stellare; questi nuclei sono oggi conosciuti come globuli di Bok. Si ritiene che un tipico globulo di Bok contenga circa 10 masse solari (M☉) di materia.

Agli inizi del XX secolo James Jeans ipotizzò che una vasta nebulosa rimane in equilibrio finché la gravità, che tende a far collassare la nube, viene bilanciata dall’energia emessa dalla nube stessa sotto forma di calore, che genera una pressione verso l’esterno. Tuttavia, secondo Jeans, tale equilibrio era assai instabile e poteva rompersi facilmente a favore della gravità, innescando il collasso gravitazionale della nube e dando così inizio alla formazione di una stella.
Ma qual è l’evento che rompe l’equilibrio all’interno di una nube interstellare?
Le osservazioni mostrano che raramente il collasso avviene spontaneamente, ma che nella maggior parte dei casi è indotto dalle onde d’urto generate dallo scontro di due nebulose, o dall’esplosione nelle vicinanze di una supernova (una stella di grande massa giunta a fine vita), oppure dalle perturbazioni prodotte all’interazione tra due galassie o anche, infine, dall’energia emessa da una o più stelle vicine. Si formano così dei nuclei di condensazione, ove la densità continua ad aumentare.

Il processo di contrazione gravitazionale procede lentamente, anche per alcuni milioni di anni, finché la temperatura del nucleo che si è condensato raggiunge i 2000 K circa. A questa temperatura l’energia termica ionizza gli atomi di idrogeno ed elio, assorbendo così l’energia generata dalla contrazione gravitazionale: in questo modo il nucleo raggiunge una condizione di equilibrio che può durare per alcune decine di migliaia di anni; l’oggetto che si è formato è chiamato protostella.
Ha inizio ora una fase di accrescimento, in cui la protostella inizia ad aumentare la propria massa accumulando gas dalla nube. L’aumento di massa determina un incremento della pressione nel nucleo della protostella, che provoca un aumento progressivo della temperatura. La nube che darà vita alla stella assume una struttura discoidale, detta disco di accrescimento, in rotazione sempre più rapida man mano che il materiale della nube viene attratto dal nucleo centrale (è l’effetto della pattinatrice che inizia la trottola a braccia allargate e poi le ritrae).
Questa fase si dimostra cruciale per la futura stella: infatti, se la protostella non riesce ad accumulare almeno 0,08 M☉(masse solari), la temperatura che raggiunge il nucleo non è sufficiente per la fusione dell’idrogeno e la protostella diviene quella che gli astronomi definiscono nana bruna, una “stella mancata” che si raffredderà lentamente emettendo l’energia termica accumulata.

Se la massa accumulata è compresa tra 0,08 e 8–10 M☉, la protostella continua ancora il collasso gravitazionale, perché non ha ancora raggiunto la temperatura e la pressione necessarie alla fusione dell’idrogeno, come le stelle di sequenza principale del diagramma H-R (di Hertzsprung-Russell). Il collasso termina quando la protostella è in grado di avviare il processo di fusione dell’idrogeno. A questo punto si posiziona sulla sequenza principale, in posizioni diverse a seconda della temperatura raggiunta.
Infine, se la massa è superiore alle 8-10 M☉, la protostella raggiunge immediatamente la sequenza principale tra le stelle bianco-azzurre, perché è in grado da subito di innescare la fusione dell’idrogeno. Il tempo impiegato per completare la fase di accrescimento è direttamente proporzionale alla massa accumulata.
La massa determina anche la durata della vita della stella: le stelle più pesanti hanno vita breve (pochi milioni di anni) perché dovranno produrre molta energia per evitare di collassare e quindi le reazioni di fusione “bruciano” molto in fretta la materia disponibile; le stelle meno massicce necessitano di energia molto minore e, quindi, il processo di fusione è molto più lento e la loro vita può protrarsi per miliardi di anni.
Il modello standard fu confermato, a partire dalla fine del XX secolo, dalle osservazioni effettuate nell’infrarosso e dalla disponibilità di strumenti innovativi, come il telescopio spaziale Hubble (HST), il telescopio spaziale Spitzer, per osservazioni nell’infrarosso, e il Very Large Telescope (VLT) con ottiche adattive. Ma un contributo determinante è stato dato dall’interferometria delle onde radio, che ha permesso di individuare le strutture legate a stelle in fase di formazione. Di particolare importanza in questo campo è il radiointerferometro ALMA dell’ESO, situato a 5000 metri d’altitudine nel deserto di Atacama in Cile, composto da 66 antenne che operano a lunghezze d’onda millimetriche (tra l’infrarosso e le onde radio) e agiscono insieme come un singolo telescopio. ALMA è attualmente il telescopio più potente per osservare l’Universo freddo e studiare gli elementi che costituiscono le stelle, i sistemi planetari e le galassie.

Il processo di formazione delle stelle, che abbiamo esaminato, lascia ancora aperti molti interrogativi. Come producono energia le stelle durante la loro vita? Perché giungono a fine vita? Qual è il loro destino dopo? E i pianeti, come si formano? Cominceremo da questi ultimi nel prossimo articolo.