Cos’è la Visione? Tommaso d’Acquino dice che la vista di tutti i nostri sensi è quella che serve per l’invenzione ed Aristotele sostiene che gli uomini desiderano conoscere e gradiscono soprattutto le sensazioni visive poiché la vista è, di tutti i nostri sensi, quella che ci fa acquisire più conoscenze. Il “vedere” può quindi diventare qualche cosa di più del guardare, può essere “visione”, percezione di qualche cosa che non appare ai sensi: Pensare – Immaginare.
L’immaginazione è da sempre una peculiare caratteristica umana, e l’immaginazione si fa racconto mitico, leggenda e la visione diviene manifestazione divina. I tanti dei dell’ Olimpo o il Dio Unico del Libro si sono manifestati nel racconto tramite visioni. Molte le visioni della Bibbia: con Abramo e poi Mosè a cui Dio sull’Horeb rivela la sua voce attraverso un roveto che arde senza consumarsi. Mosè avrà poi la visione dell’immagine di Dio ma senza poterne vedere il suo volto: “passerò davanti a te e mi potrai vedere da dietro”. Il Dio inesprimibile dalla parola umana apparirà in immensi cerchi di luce, così potenti da confondere la mente e il ricordo del profeta.
Nel clima culturale del VI secolo a.C. si sviluppa in Grecia una sorta di illuminismo primigenio, si fa avanti il concetto di “razionalità scientifica e filosofica”, ed inizia la contrapposizione tra Mithos e Logos. La ragione comincia ad imporre alla verità di rispondere sempre ai principi di “identità” e di “non contrapposizione”, con ciò condannando l’ambivalenza del linguaggio mitico, mimetico, mistico, immaginifico e simbolico. Non sarà facile: perché poi certi concetti che girano per la testa (il pensiero è anche immaginazione) com’è che li si può esprimere? Platone si rende partecipe di tale contrarietà ma, è proprio lui che, non volendo contraddirsi, cade in contraddizione dal momento che le sue opere, fortemente ispirate alla razionalità sono nel contempo ricche di narrazioni mimetiche (mimèsi: la maniera con cui entriamo in contatto ed esprimiamo la realtà attraverso il nostro personale e originale modo di sentire). Nella visione della sua “Repubblica” distingue il progetto educativo, che lui chiama “didakton”, e lo enuncia secondo i canoni di una rigorosa razionalità scientifica e filosofica, ma poi, per descrivere il disegno legislativo, “la giusta legge”, “la giustizia giusta” non può che utilizzare un linguaggio simbolico e lo va a chiamare “Mythologhein” esponendo un modello quale mito di perfezione cui la realtà dovrebbe avvicinarsi. Anche Lucrezio nel “De rerum natura” supplisce alla mancanza di rigore argomentativo con la visione di un concetto astratto per descrivere “l’infinitamente piccolo” e “l’infinitamente grande” e compone un opera che muove sull’ambizione di una visione dell’ “infinito in versi”.
La stessa tensione mimetica la si trova, per far aderire l’espressione linguistica alle descrizioni, in tutta la Commedia dantesca. In particolare tutto nel Paradiso è “una ascesa del vedere” didascalica ed allegorica. La visione e la contemplazione di Dio e dell’unità dell’universo in Dio, in sé ineffabile (indescrivibile a parole) per l’insufficienza del linguaggio umano, giunge ad esprimere l’inesprimibile attraverso una visione dell’Eterno, dell’Assoluto e dell’Infinito che manca di immagine sensibile. Dante stesso dice che da qui in poi la sua visione sarà maggiore di quanto la sua parola possa esprimere, anche perché la memoria cede a tale eccesso. L’immagine di Dio è l’insieme delle immagini del mondo e di tutto ciò che nell’universo si “squaderna”. Nella profonda luce a Dante pare vedere tre cerchi di colore diverso che si rispecchiano l’uno nell’altro come i colori nell’arcobaleno e guardandoli vede un’immagine dalle sembianze umane. Una visione incomprensibile, che solo la Grazia che è premio della Fede permette a Dante di capire, ma senza poter comunicare a parole ciò che ha compreso e tutto si chiude con la visione delle stelle e di Dante che viene avvolto nell’immagine stessa che sta guardando. Anche Mosè come Dante ha visto l’immagine di un Dio inesprimibile totalmente rispecchiato nell’umano: Il Dio indescrivibile entro il cerchio della luce, l’immagine conclusa dell’uomo, la fine che si congiunge al suo inizio. Bellezza estetica e pienezza spirituale, dimensione metafisica ed entità di natura puramente spirituale. “Itinerarium in mentis Deum”: l’estetico chiamato a trapassare nell’estatico.
In Dante c’è poi una visione più terrena, la Commedia non è solo una delle più alte opere di poesia che siano mai state prodotte ma, è anche la prima opera letteraria scritta in una lingua moderna. Mentre il Medioevo in Europa volge al termine Dante abbandona il latino, lingua della “scrittura alta” e adotta l’italiano: una lingua che alla fine del ‘200 ancora quasi non esisteva se non come idioma volgare dell’uso parlato, povero nel lessico e privo di codificate regole grammaticali e sintattiche, e ne fa lo strumento linguistico cui affidare la sua grande opera. L’Era Moderna faticosamente si sta schiudendo e Dante riesce condensare nella sua opera la sintesi straordinaria della realtà storica e della cultura medioevale: quella che nell’arco di quasi un millennio aveva assimilato e adattato la cultura classica greca e latina, trasformandola nella nuova cultura moderna d’occidente.
Aveva vent’anni Giacomo Leopardi quando venne rapito dalla visione dell’infinito, non in un luogo straordinario ma a due passi da casa, nel suo “natio borgo selvaggio” di Recanati. Ai grandi non sono i luoghi a destare la grandezza, perché ce l’hanno dentro. Non c’è bisogno di espedienti straordinari per cogliere la “visione” dell’universo e il brivido spaesato davanti al suo spalancarsi. Ma noi che esperienza abbiamo dell’infinito? Facile dedurre che, presi come siamo dal simulacro d’infinito del web, dell’infinito metafisico ci importi poco o nulla. Rispetto a Leopardi abbiamo alle spalle due secoli di studi scientifici ed astrofisici, siamo immersi in un’epoca ad alta tecnologia e dell’infinito non abbiamo una idea più chiara e meno vertiginosa di quella sua. Siamo addirittura messi peggio, perché sottratti al romanticismo di quell’epoca, dell’infinito abbiamo una idea meno lirica e più angosciosa. Sulla “visione” dell’infinito di Leopardi sono stati scritti fiumi di parole, sono state invocate teorie filosofiche e teologiche, ma la verità è che la visione di Leopardi è meraviglia ma anche vuoto, brivido di rivelazione ma anche orrore, tremore di verità senza annuncio di salvezza. Non c’è speranza solo sgomento cui non resta che abbandonarsi senza grazia di redenzione. Anche per i greci l’infinito è dannazione, perdita di sé e del mondo, caos, hybris, crepa spaventosa nell’universo da cui tenersi lontani. Luis Borges dice : “c’è un concetto che altera tutti gli altri, non è il male il cui impero è limitato dall’etica: parlo dell’infinito” e Paolo Zellini nell’incipit del suo libro “Breve storia dell’infinito” avverte che: “Nulla è più pericoloso della perdita del limite e della misura”. Allora torniamo ai nostri rapporti con l’infinito, per dire che forse non ne abbiamo, neppure più la visione leopardiana di spazi interminabili, di spaventoso silenzio e quiete; non né abbiamo neppure più la visione mistico-religiosa che nell’epoca di Leopardi, anche se non per lui, era ben presente. Oggi l’infinito è vissuto come negazione del limite, vertigine delle possibilità, libertà da tutto, desiderio di essere ciò che si vuole, eccedenza del possibile sul reale e rigetto del destino. E allora, l’infinito non è più “visione” diventa malattia, delirio d’onnipotenza, dolore d’impotenza, diventa l’hybris, la maledizione dei greci. Attenti a questa “visione” perché l’uomo vive in una condizione tragica: non può accettare la finitudine né concepire l’infinito; trova assurda la morte ma anche l’immortalità; non riesce a pensare che il tempo e lo spazio finiscano e neppure che non finiscano mai. L’uomo è inchiodato a questa alternativa, deve esistere dentro il limite e la “visione” può averla solo col pensiero o con la fede. Robert Musil dice: “la felicità senza limiti non esiste, Il confine è l’arcano” . La perfezione è il “cerchio concluso” dove la fine si congiunge all’inizio. Questa è la “visione”, pensiero che si fa assoluto anelito alla vita, all’io che si ricongiunge al sé e tocca il senso del limite.
Gli occhi sono capaci di guardare: ma non bastano per vedere.
Guardare è facile, spesso vedere non lo è.
Auguro a tutti un anno di buone visioni!