Il Grand Tour: l’avventura

Incidenti e Accidenti

Il viaggiatore che si cimentava nel Gran Tour qualche rischio lo correva: il sole, il caldo, gli insetti ed anche i frequenti disturbi intestinali dovuti ad dieta ben diversa da quella del nord Europa. Non mancavano per diligenze e cavalcature incidenti dovuti alle pessime condizione delle strade, aperte su precipizi, trasformate in torrenti dalle piogge, disseminate di buche che spezzavano giunti e ruote. L’esperienza peggiore era certamente quella, affatto rara, del ribaltarsi della carrozza per l’imprudenza o l’imperizia dei conducenti.

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Giovanni Paolo Pannini – Piazza Monte Cavallo

In letteratura se ne trovano di tutti i tipi, aneddoti ma anche testimonianze figurative come incisioni, litografie, disegni per raccontare di incidenti descritti come spaventosi, ma quasi sempre a lieto fine.

Così l’enciclopedista francese André Morellet, nel 1758, poteva non senza un sospiro di sollievo raccontare di un pericolo scampato, quando affrontando una salita, i cavalli, i cui zoccoli già sprizzavano scintille sulle rocce, si impuntarono facendo rinculare la carrozza verso l’abisso. Il postiglione, dopo aver invocato Sant’Antonio, si gettava fuori dalla vettura che, con bauli e passeggeri, faceva il gran salto. Sobbalzi, urti e poi la provvida fermata: un albero grosso e fronzuto, in bilico sul burrone. L’estrema insperata ancora di salvezza.

Quindi viaggio scomodo, quindi la prima condizione necessaria per affrontarlo era quella di essere in ottime condizioni di salute. Le ampie distanze e i tempi lunghi implicavano una buona capacità di sopportare i repentini mutamenti climatici, ci voleva poi un buon sistema immunitario capace di evitare contagi e sopperire a condizioni igieniche approssimative. Occorreva, poi, una buona attitudine alla scomodità dato che né la carrozza, seppure la migliore, né le locande, non sempre alla altezza, potevano garantire un comodo riposo. Era necessario anche uno stomaco forte e una certa agilità, perché poteva ben capitare che si dovesse anche scendere dalla carrozza e proseguire a piedi. Ma anche perfette condizioni fisiche non potevano scongiurare la nausea ed il vomito provocati dall’ondeggiamento della carrozza, né i colpi di sole, molto frequenti per chi marciava a piedi o a cavallo, né le punture di insetti, né i ripetuti avvelenamenti che derivavano da cibi avariati e mal conservati, abbastanza comuni sulle tavole delle taverne.

Venivano suggeriti anche i rimedi: in caso dei colpi di sole, il malato (dopo l’immancabile salasso) doveva bere succo di limone in gran quantità e bagnarsi la testa con panni intrisi di succo di verbena o lattuga, per poi passare ai lassativi, a base di infuso di tamarindo. Era consigliata grande sobrietà nel bere e nel mangiare ed una dieta a base di pane, uova, frutta, che evitasse sughi, salse, carne salata e pasticceria. Per le cadute da cavallo una guida settecentesca consigliava all’infortunato di bere subito dell’acqua fresca

ed in appresso a un uovo si mescoli una dramma di bettonica, e si inghiottisca, che preserverà le parti interne da qualunque pregiudizio, purché non vi sia rottura fatta, nel qual caso il decotto coll’erba denominata mille foglie, ovvero colli fiori d’ipericon, preso la mattina, e la sera, farà effetti mirabili.

Banditi, ladri e lestofanti

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Giovanni Paolo Pannini – Piazza Santa Maria Maggiore

Massima vigilanza si doveva porre nel trattare con gli italici indigeni che, dai racconti, paiono tutti canaglie e tagliagole, sempre pronti ad approfittarsi dell’incauto viaggiatore. In realtà l’Italia era più sicura di quanto i visitatori raccontassero, ma tant’è: nella memoria è più grato il ricordo avventuroso piuttosto che l’opaca quotidianità. Di storie di banditi i viaggiatori ne raccontavano a bizzeffe, quasi sempre però per “sentito dire”. Un po’ per la paura di incontrarli, un po’ per l’aura romantica che li circondava, ne fanno, nei resoconti del viaggio, un capitolo cospicuo che soddisfa il lato avventuroso e romanzesco del piacere del viaggiare. Il pericolo si limitava in effetti ai territori dello Stato della Chiesa, alle province napoletane e, più tardi, alla Sicilia.

Per difendersi, oltre all’ovvia precauzione di rifiutare passaggi agli sconosciuti, poteva servire, ove si avesse animo combattivo, una bella pistola a due colpi, che, infatti, non mancava di essere consigliata come parte del corredo del viaggiatore. Se si soccombeva ai banditi il destino era quello di essere rapiti per ottenere un riscatto. A proposito di banditi c’era anche il lato morboso: era infatti assai ricercata, diventando una delle attrazioni turistiche più in voga, una visita alle prigioni di Castel Sant’Angelo dove, dietro robuste sbarre, si potevano vedere veri banditi rinchiusi in attesa che il boia compisse l’opera sua. Le signore, soprattutto inglesi, facevano la fila per farsi turbare ammirandone l’aspetto feroce ma affascinante.

Era fondamentale inoltre, per la propria sicurezza, stare in guardia nei luoghi pubblici, taverne e osterie erano, infatti, il ritrovo di ladri ed imbroglioni: guai a mostrare gioielli, tabacchiere e orologi, meglio dissimularli, magari dentro una cintura da tenere sotto gli abiti.

Ci si doveva anche guardare dai ciarlatani: mai lasciarsi ingannare da parrucche, mani ingioiellate, abili parlantine e abiti ricercati, tutti espedienti per mettere nel sacco gli ingenui. Evitare con cura i giocatori di professione che spesso, per attirare lo straniero, si servivano della complicità di camerieri compiacenti o servette d’albergo, queste ultime di comprovata voluttà.

Guardarsi infine dalle cortigiane. Qui il danno era doppio: economico e di salute. Nella disgraziata ipotesi di contrarre una malattia venerea, si consigliava la continenza (anche se un po’ in ritardo) e la somministrazione di mercurio, il tutto corroborato da una dieta ricca di decotti e latticini.

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