L’epico canto. Argo, il cane dell’eroe.

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Franklin Simmons – Penelope (1896)

Il canto epico è un qualcosa di veramente straordinario. Il poeta componeva dal vivo, conosceva l’intera vicenda, gli uomini, gli dei volubili, l’umana sorte e le gesta epiche degli eroi, ma ogni volta componeva una poesia diversa e per tenere in pugno il suo uditorio (ne andava del suo pane) doveva procedere per picchi narrativi sempre più elevati, senza poter indulgere in inutili descrizioni o chiarimenti. Prendiamo la “tela di Penelope”, il poeta crea un “topos” universale (ancora oggi per definire un opera mai è finita diciamo: “è come la tela di Penelope”) poi l’abbandona, non se ne sa più nulla. Ha raggiunto il suo scopo. Nel canto epico ogni picco narrativo è collegato a quello successivo da una linea ideale, un sentiero, l’unico possibile. La potenza della narrazione è tale che l’eco del poeta continua all’infinito: una storia semplice, un reduce, un vagabondo e storie mirabolanti di mare e viaggi, tanto simili a quelle raccontate da qualsiasi marinaio in un qualsiasi  porto, eppure solo la sua storia sopravvive e continua a riecheggiare. E così. alla fine anche Odysseo torna alla sua isola, ma ecco un’altra sorpresa: sulla nave che lo deve riportare ad Itaca gli dei lo hanno fatto cadere in un sonno profondo, verrà deposto sulla riva ancora dormiente e al risveglio non riconosce la sua terra.

Né la sua terra riconobbe: stato
N’era lunge gran tempo, e Palla cinto
L’avea di nebbia, per celarlo altrui,
E di quanto è mestier dargli contezza,
Sì che la moglie, i cittadin, gli amici
Nol ravvisin, che pria de’ tristi Proci
Fatto ei non abbia universal macello.
Quindi ogni cosa gli parea mutato,
Le lunghe strade, i ben difesi porti,
E le ombrose foreste, e l’alte rupi.
Sguardò fermo su i piè la patria ignota,
Poi non tenne le lagrime, e la mano
Battè su l’anca, e lagrimando disse:
Misero! tra qual nuova, estrania gente
Sono io? Chi sa, se nequitosa, e cruda,
O giusta in vece, ed ospitale, e pia?

(Libro XIII – Trad. Pindemonte)

Sarà ancora Atena, che ha preso le sembianze di un pastorello, a svelare l’arcano e solo allora Ulisse capirà di essere finalmente a casa.  Ma è ancora tempo di un altro inganno: la dea lo tocca, quasi l’ accarezza  (Atena è il vero deus ex machina di ben due poemi ed è la prima volta che lo sfiora) e lo trasforma in un vecchio e lacero mendicante. Solo così, il re di Itaca, potrà arrivare al suo palazzo che è insidiato dai Proci.

Mentre così diceva, la Dea lo sfiorò.
Di grinze tutte quante coperse le floride membra,
gli fe’ sparir dal capo le chiome sue bionde; e su tutta
la sua persona stese la pelle d’un vecchio cadente,
foschi gli rese gli occhi, che prima fulgevano belli.
Ed una tunica indosso gli pose, ed un misero manto,
roba stracciata, lorda, di sudicio fumo annerita,
ed una logora pelle su quelli, di rapido cervo.
Poscia un bastone in mano gli diede, e una rozza bisaccia,
tutta a brindelli; e al collo pendea da una logora cinghia.

(Libro XIII – Trad. Romagnoli)

Odysseo sa che dovrà espugnare altre mura e per farlo dovrà usare di nuovo l’inganno: dovrà far di sé stesso “cavallo di Troia”(un altro topos universale). Quando si presenterà sulla del suo palazzo solo il vecchio cane Argo lo riconoscerà: sono passati vent’anni e un cane non vive così a lungo, ma Argo non è un cane qualsiasi, è il cane del Re di Itaca, ha respinto la morte per morire ai piedi del suo signore. E Ulisse, compreso di tanto affetto e dedizione, si dovrà coprire il volto per nascondere le lacrime.

Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch’ivi giacea, del paziente Ulisse,
La testa, ed ambo sollevò gli orecchi.
Ivi il buon cane, di turpi zecche pien, corcato stava.
Com’egli vide il suo signor più presso,
E, benché tra quei cenci, il riconobbe,
Squassò la coda festeggiando, ed ambe
le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò; ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse, riguardatolo, s’asterse
con man furtiva dalla guancia il pianto,
celandosi da Eumeo, cui disse tosto:
Eumeo, quale stupor! Nel fimo giace
Cotesto, che a me par cane sì bello.
Ma non so se del pari ei fu veloce,
O nulla valse, come quei da mensa
Cui nutron per bellezza i lor padroni.
E tu così gli rispondesti, Eumeo:
Del mio Re lungi morto è questo il cane.
Se tal fosse di corpo e d’atti, quale
Lasciollo, a Troia veleggiando, Ulisse,
Sì veloce a vederlo e sì gagliardo,
Gran maraviglia ne trarresti: fiera
Non adocchiava, che del folto bosco
Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia
Perdesse mai. Or l’infortunio ei sente.
Perì d’Itaca lunge il suo padrone,
Né più curan di lui le pigre ancelle:
Ché pochi dì stanno in cervello i servi,
Quando il padrone lor più non impera.
L’onniveggente di Saturno figlio
Mezza toglie ad un uom la sua virtude,
Come sopra gli giunga il dì servile.
Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo
Mise, e avviossi drittamente ai Proci;
Ed Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
gli occhi nel sonno della morte chiuse.

(Libro XVII – Trad. Pindemonte)

Quanto è struggente questo pezzo. Ma quello che è stato decretato non si può più rinviare e sarà il tempo dell’ordalia, del massacro, del sangue riparatore e purificatore di soglia e casa. Poi si dovranno affrontare i parenti degli uccisi che reclameranno vendetta, e sarà ancora la dea a scendere per imporre la pace. E dopo? Cosa succede dopo? Ma Omero tace, il suo epico racconto finisce lì. Noi, se vorrete, ne parleremo la prossima volta.

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