L’incontro con l’avo Cacciaguida nel cielo degli spiriti combattenti è per Dante l’occasione di parlare, ancora una volta, di Firenze che è simbolo dell’Italia divisa
La Firenze sobria e pudica
L’incontro di Dante col trisavolo Cacciaguida nella triade di canti del Paradiso dal XV al XVII rappresenta, a mio avviso, uno dei momenti più significativi dell’intera Commedia nei quali il Poeta ci mostra con l’espediente dell’incontro con l’avo e tramite le sue parole, il significato del suo viaggio ultraterreno presentandocelo come una missione provvidenziale volta ad indicare all’umanità la via della salvezza.
Dante sente che deve dimostrare la validità, non solo letteraria ma anche morale, della sua opera e, da uomo colto, ricorre ad un artificio che riproduce il modello classico della catabasi di Enea che nell’oltretomba (VI canto dell’Eneide) riceve dal padre Anchise conferma della sua missione di fondatore e la visione delle glorie future di Roma.

Cacciaguida sta nel cielo di Marte tra le anime dei militanti per la Fede, infatti in vita seguì Corrado III di Svevia alla seconda crociata, dove trovò la morte per mano di “quella turpe gente” e dal martirio giunse direttamente al Paradiso. L’incontro è l’occasione di parlare di Firenze e nelle parole del beato c’è una completa digressione sulla Firenze di un tempo: morigerata, sobria di costumi, improntata ai valori della tradizione famigliare e dedita all’onesto lavoro agricolo ed artigianale, in cui Sardanapalo ancora non aveva mostrato ciò che in “camera si puote”. Poi il ricordo si perde nella rievocazione di quelle che furono le più importati famiglie fiorentine, fino ad arrivare al lento declino subito dalla città e dovuto alla smodata brama di lucro e alla dilagante corruzione.
La Firenze di Dante, a differenza di quella ricordata da Cacciaguida, è irrimediabilmente corrotta, senza più speranza di riscatto, perché il “maledetto fiore” l’ha trasformata in “pianta di satana”, come già aveva anticipato Folchetto di Marsiglia (monaco cistercense e vescovo di Tolosa) nel IX Canto del Paradiso quando, con parole dure, aveva condannato Firenze, città prodotto di Lucifero, il primo degli angeli ribelli a Dio la cui invidia, che sempre è fonte di sofferenza, ha prodotto e diffuso il Fiorino, sviando pecore ed agnelli (il popolo di Cristo) e trasformando in lupo il pastore.
Fiorenza dentro da la cerchia antica ond’ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona. Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote non fuggien quinci e quindi la misura. Non avea case di famiglia vòte; non v’era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ciò che ’n camera si puote. Paradiso XV, 97-108
Il passato però, non può e non deve essere solo nostalgia e rimpianto, deve farsi stimolo alla memoria che risveglia il desiderio di un prossimo futuro più giusto. Ecco il primo dei messaggi di Cacciaguida che, parlando della Firenze d’un tempo e ricordandone la sobrietà, indica a Dante la necessità di una rigenerazione dell’Italia intera.
Il Cielo degli Spiriti combattenti
È tempo di ascendere, di salire al nuovo cielo, dai sapienti a coloro che in vita si batterono per la gloria della vera Fede. Appare uno spettacolo di luce e gli spiriti beati danno al loro splendere la forma di una croce, al cui centro c’è il volto di Cristo. Dante ne è rapito, Salomone glielo aveva preannunciato: la vita sensibile si sarebbe trasformata in mistica visione.

La sua chiarezza séguita l’ardore; l’ardor la visione, e quella è tanta, quant’ ha di grazia sovra suo valore. Paradiso XIV, 40-42
Appaiono dunque, intonando un inno di lode, gli sfolgoranti lumi delle anime beate di coloro che in vita subirono l’influsso di Marte che li spinse a lottare per la fede. Fra loro si distingue Giosuè conquistatore della terra promessa e Giuda il Maccabeo che liberò dalla tirannia il popolo sconfiggendo il tiranno siriaco Antioco Epifane, Orlando e Guglielmo d’Orange che combatterono i saraceni, Goffredo di Buglione, duca di Lorena che si distinse nella conquista cristiana di Gerusalemme e Roberto il Guiscardo, che pose fine al dominio bizantino nel sud dell’Italia.
Appare infine Cacciaguida, il trisavolo che rompendo la beatifica visione, lo riporta col pensiero alle tristi cose del mondo. E non poteva essere altrimenti, poiché tutto il viaggio dantesco è percorso iniziatico cha va dall’umano al divino.
È tempo allora di parlare della Firenze antica e del suo “popol giusto e sano” e della Firenze di Dante corrotta e conflittuale, anti Paradiso contrapposta alla Città di Dio. È un ripudio senza appello del luogo natale, lacerato dal degrado morale, irriconoscibile per il modo in cui si è trasformato nel tempo. Dante, che ha subìto di persona le ferite della guerra civile che ha lacerato la città, è sempre stato sostenuto dalla speranza di un riscatto, intravisto nella fiduciosa attesa di un imperatore che finalmente porti giustizia e concordia. Così Firenze assurge, nelle parole di Dante, a simbolo di tutta la penisola, dominata e divisa da consorterie e fazioni e dove ondate di esuli sono costretti a lasciare le loro città per l’esilio, e al Poeta, anch’egli esule, tutto questo porta il doloroso ricordo delle drammatiche scene della Pharsalia di Lucano.