Nel tempo degli dei scomparsi si addice la nostalgia. Non è la nostalgia dell’Olimpo; è la nostalgia del divino, dell’intramontabile mentre noi tramontiamo, dell’eterno e dell’origine mentre noi siamo mortali e senza origine.
Gli dei pagani se ne sono andati e anche Dio se ne è andato, ne sentiamo la mancanza, non lo si trova più nella vita della gente; da un po’ si fatica a trovarlo anche in chiesa, lascia un vuoto gigantesco e tutta la nostra vita ruota attorno a quel vuoto.
Quando si dice “tutti gli dei furono immortali” si commette un errore perché declinare al passato l’immortalità è un non senso. Si dovrebbe dire “tutti gli dei furono creduti immortali”, ma oggi questa frase vale al contrario: “tutti gli dei sono creduti inesistenti”. In questo modo la questione però non riguarda più gli dei ma noi, le nostre convinzioni e le nostre esistenze. Nulla ci dice della loro esistenza o inesistenza, perché a morire non sono stati gli dei bensì la nostra percezione in loro.
Per Nietzsche Dio morì il 27 luglio 1849, quando nella canonica di Röcken morì il padre, pastore protestante e lui dovette lasciare la casa e il luogo della sua infanzia. Quando in età matura annunciò la morte di Dio vi traspose la morte del padre e la sua cacciata dalla casa del Signore.
Col trascorrere degli anni la scomparsa di Dio prese dapprima forma di teofobia e più di recente di ateismo praticante, rimuovere Dio senza affrontarlo. La scomparsa di Dio ha fatto proliferare una miriade di surrogati, si è sbandierata l’assoluta libertà dell’Io come l’Homo Deus di Yuval Noah Harani: al posto di Dio c’è l’etica, la legge, l’umanità.
Ma non c’è niente da fare, ancora non riusciamo a liberarcene, ancora viviamo l’angoscia di consegnarci definitivamente all’ “uno terreno” perché l’ “Uno” si addice al cielo, non alla terra. Sulla terra la verità ci è preclusa, possiamo coglierne solo vaghi frammenti; la verità ha tanti lati e ne riusciamo a cogliere solo alcuni e il nome che diamo a questa nostra mancanza, a quello che non siamo, a ciò che non possiamo è Dio. Questo è il nostro limite, il mistero dell’Essere che possiamo intuire e mai pensarlo per intero, proprio come la verità.
L’uomo è dentro l’arcano di una intelligenza che non riesce a cogliere, pensa in Dio perché l’Essere precede il pensiero e lo costituisce. Possiamo dire con Heidegger che noi sopravveniamo tardi per gli dei e troppo presto per l’Essere, e così, piantati lì nel mezzo, viviamo con angoscia la sua assenza.
Ma al Dio, inteso come Essere o Logos, manca l’umano calore del Dio cristiano, manca la figura Gesù e il lato umano della sua storia, manca sua madre e i santi, manca la sua vita e la famigliarità col divino, manca la grazia premurosa della Provvidenza e il conforto della sua misericordia. In Dio riviviamo il padre, nella figura di Maria di Nazareth la madre e la sua tenerezza.
Illusioni? Superstizioni? Meglio del nulla diceva Vico, perché in fondo la superstizione è quanto resta di verità perdute.
Torniamo al presente, anzi torniamo all’infinito presente globale in cui siamo immersi. La scienza non nega e non conferma Dio, sposta solo il là la linea di confine del “non cognito”. Ma la scienza non può illuminare l’infinito, ci spinge avanti ma ci lascia al buio e a noi tocca scommettere con Pascal su Dio o sul nulla. Dio è un rischio e la scommessa va oltre il pensare e oltre la scienza. Ci tocca scommettere sull’Essere anziché sul niente; per gli imputati c’è almeno la regola “in dubio pro reo”, nell’incertezza tra Essere e nulla non resta che “in dubio pro Deo”.