Roma, 20 Settembre 1870

151 anni fa il Regno d’Italia trovava la sua capitale e cominciarono i problemi.

Quel giorno le cannonate del generale Raffaele Cadorna aprirono una breccia nelle mura Leonine e consentirono ai bersaglieri di irrompere in Roma. Finiva il potere temporale dei pontefici e si concretizzava l’ideale di fare dell’Urbe la capitale del Regno d‘Italia. L’evento sollevò ondate di entusiasmo patriottico, ben presto però iniziarono i malumori.

Quella mattina Pio IX si alzò di buon ora, celebrò messa e ricevette il corpo diplomatico. Intendeva rendere evidente il sopruso, di cui si reputava vittima da parte del Governo italiano, ma pretese che non fosse versato inutile sangue e diede precise disposizioni che i suoi reparti si arrendessero alle prime avvisaglie di fuoco. I “papalini” obbedirono ma con riluttanza, abbassarono le armi ma non subito e i bersaglieri furono costretti ad un vero e proprio assalto. Comunque fu poco più di una esercitazione.

Quel giorno definì l’annosa contesa per il governo di Roma. Fin dal 1840 i patrioti spingevano per un Vaticano tricolore. Al Soglio di Pietro era stato eletto, nel 1846, Giovanni Maria Mastai Ferretti, da tutti considerato un progressista e lui avrebbe davvero voluto esserlo, ma si trovò suo malgrado ad essere “arruolato” nelle fila del Risorgimento. Quando l’equivoco venne chiarito, il popolo romano si agitò e Pio IX° lasciò Roma per Gaeta, ospite del Re di Napoli Luigi Napoleone. Furono i mesi della Repubblica Romana di Saffi e Mazzini, con Garibaldi a capo dei reparti armati. Quel tentativo si risolse in un fallimento, svanì davanti alle divisioni francesi, ma fu un successo (oggi diremmo “mediatico”) perché lasciando in eredità un’immagine di orgoglio e accortezza politica, permise all’idea di Roma Capitale di non esser più una mera utopia, ma un sogno cui bastava poco per concretizzarsi.

Intanto la politica e la diplomazia piemontese andò brigando per diventare Italia. Ad aiutare i Savoia intervenne l’Imperatore dei francesi Napoleone III° che disfece gli austriaci a Solferino e San Martino (Seconda Guerra di Indipendenza 27 aprile-12 luglio 1859), lasciò fare quando i Mille di Garibaldi aggredirono il Regno delle Due Sicilie e il Piemonte si prese Umbria e Marche e  si fece mediatore (Terza Guerra di Indipendenza 20 giugno – 12 agosto 1866) perché acquisisse anche il Veneto. L’unica condizione era che Roma non venisse toccata. Napoleone III° si era sempre impegnato nella lotta dei popoli contro le tirannie, ma non poteva ignorare di aver conquistato Parigi appoggiandosi al blocco cattolico, che stava dalla parte del Papa. I vari presidenti del Consiglio che si succedettero dopo Cavour (morto nel giugno 1861), da Riccasoli a Rattazzi e a La Marmora tentarono più volte di ripetere il colpo di mano con cui Garibaldi si prese il Sud ma Francia ed Europa fecero chiaramente intendere che per Roma non avrebbe voltato la testa e quei tentativi fallirono sull’Aspromonte e a Mentana.

Nel 1870, però, lo scenario era cambiato, la Francia aveva i suoi guai interni e per di più, in campo estero, doveva cercare di contenere la Prussia che dopo aver conquistato il primato sui Paesi tedeschi  tentava ora di imporsi nell’intera Europa. E così l’Italia trovò lo spazio per attaccare lo Stato della Chiesa e perché non ci fossero dubbi sul fatto che non c’erano intenti bellicose, non dichiarò neppure guerra.

La conquista riuscì, piuttosto agevolmente ma ben presto si rivelò una delusione: conquistatori e conquistati fecero sin dal primo istante fatica a sopportarsi. I romani allegri e perdigiorno, non riuscivano proprio a capire i seriosi e abitudinari piemontesi in massima torinesi che di tutti erano i più formali e riservati.

I problemi più grossi si ebbero quando stabilita a Roma la capitale del Regno la popolazione cittadina aumentò, in poco tempo di oltre ventimila anime: militari, carabinieri, impiegati statali, medi e alti burocrati e poi parlamentari e portaborse. Bisognava trovare dai trenta ai  quaranta mila alloggi in una città che aveva un catasto approssimativamente aggiornato ad un secolo e mezzo prima e si operò con un diluvio di ordinanze di esproprio di interi palazzi occupati, per lo più irregolarmente, da generazioni di romani che si ribellarono e gli ordinati piemontesi non ci capirono più niente e dovettero soprassedere.

Occorreva costruire e si diede la stura alla più selvaggia delle speculazioni. I terreni stavano in mano a non più di una dozzina di famiglie dell’alta aristocrazia che, fiutando il vento, li avevano comprati anni prima per pochi baiocchi e adesso li vendettero a venti/venticinque Lire il metro quadrato. Cominciarono così, nel nome di Roma Capitale, i primi colossali conflitti di interesse che ben presto divennero consuetudine.  La speculazione richiamò migliaia di lavoranti in cerca di occupazione, un esercito di persone che finì sfruttata e malpagata che in pochi anni riuscì a costruire quattro mila nuove case, centotrenta mila vani e quindici nuovi quartieri. Ogni licenza di costruzione si portò dietro un contorno di accuse, di speculazione  e di scandali e non ci volle molto perché i danni del boom romano venissero a galla.

Ma non era ancora tutto, non appena la domanda di abitazioni rallentò, i prezzi precipitarono lasciandosi dietro montagne di cambiali insolute e un oceano di  crediti bancari senza speranza di essere onorati. I cantieri si fermarono e da un giorno all’altro più di 20mila operai rimasero senza lavoro e senza speranza, salvo  un foglio di via per tornare ai loro paesi d’origine. L’unica cosa che il Municipio Capitolino in bancarotta fu in grado di offrire.

Per Roma avevano fantasticato generazioni di poeti e di intellettuali, avevano sacrificato la vita migliaia di sinceri patrioti che ora lasciavano il passo ai “brasseur d’affaire” capaci di cavar moneta anche dal sangue degli eroi.

Come inizio non era male.

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