Uno svedese durante la Rivoluzione Americana: 1782-1783

1782

Williamsburg, 25 marzo 1782.

L’ultima lettera che ho avuto l’onore di scrivervi, mio caro padre, era datata 4 marzo, da Philadelphia. Sono partito di là il 9 marzo con il Cavaliere di Luzerne, siamo giunti qui il 17. Abbiamo fatto un viaggio piacevole, e le confezioni di provviste che il Cavaliere aveva preso con sé erano ben fornite con paté, prosciutti, vino e pane, evitandoci di dover sperimentare la miseria che regna negli alloggi, dove non si trova altro che carne di maiale salata e senza pane. In Virginia la gente non mangia altro che focacce fatte con la farina di mais, che cuociono sul fuoco, così formano una crosticina esterna, ma all’interno rimangono molli e non cotte. Non bevono altro che rum, un liquore fatto con lo zucchero, mescolato con acqua; lo chiamano “grog”. Quest’anno la produzione di mele è stata insufficiente, impedendo di avere il sidro. A 250 miglia da qui, in una parte della Virginia che i locali chiamano “le montagne” le cose sono del tutto differenti. È una regione più ricca, è là che si coltiva il tabacco, il suolo produce anche grano e ogni sorta di frutta. Invece, nella zona vicina al mare, dove siamo noi, non si coltiva altro se non il mais.

Il prodotto principale della Virginia è il tabacco; non è che questo Stato, il più grande dei tredici, non sia in grado di produrre altri coltivi, l’ostacolo maggiore all’industriosità è invece la pigrizia e la supponenza degli abitanti. Sembra proprio che i Virginiani siano un’altra razza di uomini; invece di darsi da fare con le loro fattorie e di metterle a profitto, ciascun possidente terriero vuol far di sé un lord. Non c’è mai un solo uomo bianco che lavori, ma, come nelle isole delle Indie Occidentali, tutto il lavoro viene svolto da schiavi negri, sottoposti ai comandi di bianchi e di sorveglianti di ordine inferiore.

In Virginia ci sono circa venti negri per ogni bianco, cosicché questo Stato ha arruolato pochi uomini. Chiunque lavori è considerato inferiore agli altri, che dicono che non si tratta di gentiluomini, e con i quali non condividono la vita di società. Tutti questi Virginiani hanno istinti aristocratici, e quando li si osservi diventa difficile capire come hanno fatto a entrare in una confederazione generale e ad accettare un governo fondato sulla perfetta uguaglianza. Il medesimo spirito che li ha spinti a scrollar via il giogo Inglese può però portarli a compiere azioni dello stesso genere rivolte verso altri, e non mi stupirei di veder la Virginia staccarsi dagli altri Stati, una volta firmata la pace. Non sarei neppure stupito di vedere l’intero governo Americano diventare un’aristocrazia assoluta. 

Qui non ci sono novità politiche, sapete già della presa di Saint-Christopher, un bel possedimento che gli Inglesi hanno appena perduto. Si parla molto dell’evacuazione di Charleston. Trenta imbarcazioni da trasporto sono arrivate a New York per trasportare le truppe. Quaranta o cinquanta erano già là, equipaggiate per fare il medesimo servizio. Tra i nostri politici c’è chi dice che stanno concentrando tutte le loro forze a New York; il che a me sembra poco probabile; altri invece parlano di una spedizione per soccorrere la Jamaica, in caso di necessità. Dopo la cattura e la completa dispersione del convoglio di M. de Guichen gli Inglesi possono sentirsi sicuri in quella direzione, e io condivido piuttosto il parere di quanti non credono affatto che sia in atto un’evacuazione. Ciò che mi rende dubbioso su ciò è il fatto che il Generale Clinton non vorrà mai affrontare un simile passo senza ordini precisi dalla sua Corte, che tali ordini possono solo essere il risultato di un piano per una campagna militare, e che nessun piano, sempre che sia stato fatto, ha avuto il tempo di arrivare qui.

La cattura di una parte del convoglio di M. de Guichen è una terribile perdita per noi. A parte le munizioni belliche e le scorte di commissariamento di cui le navi erano cariche, che possono essere rimpiazzate, abbiamo perso tempo che non potremo recuperare, e la spedizione in Jamaica fallirà. L’Ammiraglio Rodney è arrivato nelle Indie Occidentali con dieci velieri non in linea e truppe. Questo lo rende superiore a M. de Grasse, e può cambiare del tutto l’aspetto delle cose in questa parte del mondo.

Williamsburg, 25 aprile 1782 [alla sorella Sophie]

Non ci sono parole, sorella mia cara, per dirvi quanto mi abbia reso felice ricevere vostre notizie. Alla fine, la vostra lettera è arrivata; e anche quella del 26 ottobre da Mälsaker, e quella del 14 dicembre da Ljung, che sono arrivate dieci giorni fa. Non riesco a dirti quanto sono felice. Prima di rispondere, devo assolutamente dirvi cosa mi ha impedito di scrivervi prima. Non appena abbiamo saputo che la fregata era arrivata a Newport, M. de Rochambeau ha inviato un incaricato per incontrarsi con il messaggero che portava le lettere. Newport dista settecento leghe da qui. Il nostro incaricato fu rapido, tutti erano soddisfatti, io in modo speciale. Aveva portato parecchie lettere per me, cinque dalla Svezia, e alcune da Parigi. Buon Dio, com’ero felice! Ero completamente perso nella mia gioia, quando fui convocato dal Generale. Mi ordinò di partire immediatamente e andare a ritirare le lettere ufficiali. Il messaggero si era limitato a portare le lettere private dei soldati. Le lettere ufficiali del Governo Francese erano state lasciate là. Mi ordinò di andare a Philadelphia a prenderle. Sono partito di qui martedì 16, alle otto del mattino, e sono arrivato a Philadelphia sabato 20, alle otto del mattino. Martedì 23, alle otto di sera, ero già di ritorno a Williamsburg. Avevo percorso settecento miglia inglesi (sette miglia inglesi sono pari a una lega svedese). La gente ci credevano a stento. Mi hanno detto che una simile impresa non si era mai sentita da queste parti, dove non ci sono posti di cambio, si è costretti a percorrere cinquanta miglia sullo stesso cavallo, e ad attraversare sette fiumi larghi due miglia e mal provvisti di mezzi adeguati per il guado. Questo viaggio ha aumentato la reputazione di rapidità che mi ero già conquistata nell’esercito. Siamo sempre qui, in questo putrido buco di Williamsburg, dove ci si annoia a morte. Non c’è nessuna occasione di andare in società, e comincia a far molto caldo. Attendo con grandissima impazienza il ritorno di Lauzun, che sarà il segnale per la nostra partenza. Devo concludere: a dispetto del caldo, devo iniziare il mio turno di lavoro. 

Williamsburg, 27 maggio 1782.

C’è fra noi grande costernazione a proposito di una battaglia navale nelle Indie Occidentali. Inizialmente, le notizie che ci erano arrivate ci davano un vantaggio; ieri però abbiamo saputo di più tramite i canali Inglesi, e cioè la gazzetta di New York, che riporta che la nave “Ville de Paris”, con 110 bocche da fuoco, e sulla quale era imbarcato il Conte de Grasse, è stata catturata, con altre sei navi, e che noi siamo alla completa disfatta. Questa notizia sembra certa, per via dei particolari che l’accompagnano. Le navi catturate sono designate con il loro nome, il numero dei caduti e dei feriti su ciascuna nave è specificato, e, in breve, sembra impossibile che si tratti di una notizia manipolata da un notiziario.

Non sopportiamo bene questo rovescio del destino; mi rendo conto che ci lasciamo deprimere facilmente. Si potrebbe pensare che non eravamo troppo abituati ai successi, data la gioia eccessiva dimostrata quando ne abbiamo avuto qualcuno, e la tristezza nella quale sprofondiamo al minimo rovescio delle cose.

Questa sconfitta, tuttavia, è notevole, e renderà inutile l’intera campagna condotta fin qui; rende agli Inglesi il potere nelle Indie Occidentali; se sapranno agire bene potranno danneggiarci enormemente, e i rinforzi dall’Europa, se ne avranno, potranno causare la perdita delle nostre conquiste. Questo disastro avrà grandi effetti su di noi, e potrà obbligarci all’inattività per tutta la durata della campagna. Questo sarebbe terribile, soprattutto se saremo così sfortunati da rimanere in questa posizione. Il caldo è già ora estremo, immaginatevi cosa sarà in luglio e agosto.

Non abbiamo ancora avuto notizie di M. de Lauzun; le aspettiamo con grande impazienza, almeno, così è per me, e cominciamo a sentirci a disagio.

Philadelphia, 8 agosto 1782.

L’ultima lettera che ho avuto l’onore di scrivervi, mio caro padre, era datata 6 luglio, sempre da Philadelphia. Sono arrivato qui con M. de Rochambeau, che ha avuto ieri un rendez-vous con il Generale Washington per decidere insieme le operazioni della campagna. Il risultato dell’incontro fu che io fui inviato il 19 luglio a Yorktown, Virginia, con un incarico, allora segreto, non più tale ora: si trattava di imbarcare, quanto prima possibile, la nostra artiglieria d’assedio che avevamo lasciata a West-Point, otto leghe da Yorktown sullo stesso fiume, e portarla su. dalla baia di Chesapeake a Baltimora. Questa operazione richiedeva grande segretezza e molta rapidità, infatti avevo soltanto una nave con quaranta cannoni per scortare il convoglio, e gli Inglesi con due fregate avrebbero potuto catturarci all’uscita del fiume York, o perlomeno catturare alcune delle navi da trasporto.

Sono partito già ammalato, con una tremenda infreddatura, considerevolmente aggravata dalla fatica e dal calore. Non appena ebbi supervisionato l’imbarco, e visto che tutto andava bene, sono ritornato a fare rapporto a M. de Rochambeau, che era con l’armata a Baltimora. Dopo aver trascorso con lui un paio di giorni, sono partito con il Cavaliere de Chastellux per Philadelphia, dove il Cavaliere di Luzerne mi ha riempito di cure, attenzioni, gentilezze e amicizia.

L’armata lascerà Baltimora il 15 agosto per venire qui, e proseguire lungo il fiume Hudson. Aspetterò qui il suo arrivo; ho bisogno di riposo, e non avrei potuto trovare un altro alloggio dove fossi meglio accolto e potessi stare perfettamente a mio agio.

La campagna di quest’anno non sarà brillante come quella dell’anno scorso. La disfatta del Conte di Grasse, la dispersione del convoglio di M. de Guichen, la cattura di quello che era destinato alle Indie – tutti questi disastri insieme hanno deviato i nostri piani e reso irrealizzabili tutti i progetti. Adesso non ci rimane altro da fare, in questo paese, se non mettere New York sotto assedio, ma siamo troppo deboli per una simile impresa, il cui successo dipende interamente dalla supremazia marinaia, che noi non abbiamo ottenuto. L’Ammiraglio Kodney ha fatto le cose con gran cura; del resto, quand’anche noi avessimo la supremazia, non sapremmo come trarne profitto.

Aspettiamo ogni giorno notizie dalla Francia. Ci è stato detto che stanno preparando l’assedio di Gibilterra; fino al momento attuale non c’è stato altro che un blocco infruttuoso. Se i Francesi hanno intrapreso un’operazione così difficile, temo che la nostra campagna sarà del tutto inattiva, e non comporterà altro che lunghe marce laboriose. Dubito che riusciranno a prendere Gibilterra, temo del resto che gli Spagnoli giustificheranno chi rispondesse a un amico che voglia paragonare questa situazione all’assedio di Troia: “Si, ma gli Spagnoli non sono Greci”.

Qui il caldo è molto intenso, io le sopporto benissimo. La siccità è stata straordinaria; tutte le fonti sono secche, e la nostra armata ha enormi difficoltà nell’approvvigionamento di acqua, che è del tutto indispensabile con questo tempo così caldo.

Philadelphia, 17 agosto 1782.

Il giorno 8 di questo mese l’armata era a Baltimora, una cittadina sita all’estremità nord della baia di Chesapeake.

Di qui, il giorno 15 dello stesso mese, si è intrapresa una marcia verso il fiume del Nord, cioè il fiume Hudson. Le voci e i segni che abbiamo ricevuto dall’Inghilterra mentre eravamo diretti a New York hanno però rallentato la nostra marcia, e non potremo riprenderla fino al 20 di agosto. Questo è l’ordine derivato dalla decisione presa all’unisono dal quartier generale. Da queste notizie giunte dall’Inghilterra (dalla Francia non ne abbiamo avuta alcuna) sembrerebbe che la pace sia vicina.

Gli Americani non desiderano altro, adesso che la Corona Inglese ha dichiarato la loro indipendenza, e penso che l’Olanda non ritenga di aver sufficienti benefici dal continuare la guerra.

Gli Inglesi, in queste regioni, sembrano comportarsi con minore ostilità; hanno proibito ai loro partigiani, chiamati “tories” o “rifugiati”, di condurre incursioni o spedizioni all’interno del paese senza un permesso firmato dal comandante della stazione. Hanno spedito indietro dall’Inghilterra tutti i prigionieri, senza pretendere nessuno scambio. Il Generale Carleton, comandante a New York, ha informato il Generale Washington, in una lettera assai formale, che il re, suo diretto superiore, ha garantito l’indipendenza dell’America, che ha mandato a Parigi un ambasciatore con pieno potere di negoziare, che propone al Generale Washington di acconsentire ad uno scambio di prigionieri. Tutto ciò sembra un indizio di pace; tutti noi pensiamo che, se il trattato non è ancora stato firmato, certamente lo sarà nel corso dell’inverno, e che potremo imbarcarci in primavera Questa prospettiva causa gioia in tutti, la mia è così grande da non poterla esprimere; la speranza di vedervi di nuovo, mio caro padre, è cosa che io posso solo tenere in cuore.

[John Adams, Franklin, Jay, and Laurens firmarono un preliminare trattato di pace a Parigi, il 30 novembre 1782. Gli Inglesi evacuarono Charleston il 14 dicembre.]

Camp at Crompond [?], 3 ottobre 1782.

L’ultima lettera che ho avuto l’onore di scrivervi, mio caro padre, era stata scritta in agosto. Da allora sono sempre stato impegnato nelle marce, e non ho avuto l’opportunità di scriverne altre. L’armata ha attraversato il Delaware e anche il fiume Settentrionale, cioè lo Hudson, ora siamo accampati a dieci miglia da quest’ultimo, ventiquattro miglia dall’isola di New York. Tutto fa credere che termineremo qui la nostra campagna, e inizieremo da qui a preparare i quartieri invernali; nessuno ancora sa dove saranno situati, e mi rincresce di non potervi dire nulla.

Charleston è stata evacuata, si dice; di conseguenza gli Inglesi non avrebbero lasciato nulla nel Sud di questo continente. I loro possedimenti si riducono a Long Island, Staten Island, e all’isola di New York. Ci sarebbe molto da raccontare sull’evacuazione di quest’ultima, personalmente non ci credo: finché era vivo Lord Rockingam sembrava ben determinato a ciò, ma adesso tutto è cambiato. I nostri generali ci credono, ma io non sono della stessa opinione. Penso invece che stanno inviando un contingente di duemila fanti Inglesi nelle Indie Occidentali, lasciando i Tedeschi a New York con il resto, diecimila in tutto. Se ci sarà l’evacuazione, a noi non resterebbe altor da fare che ritornare in Francia.

Benché il nemico non si sia fatto vedere, la nostra campagna è stata molto aspra. Abbiamo sofferto molto per via del caldo, e adesso il tempo freddo sta diventando difficile da sopportare. Da parte mia, tollero magnificamente questi sbalzi, non sono mai stato meglio di salute. Quest’anno ho una tenda con un materasso di paglia; le coperte non sono gran che, ma un mantello può integrare questa mancanza.

Boston, 30 novembre 1782.

L’ultima lettera che ho avuto l’onore di scrivervi, mio caro padre, portava la data del 3 novembre, scritta da Hartford, dove l’armata si è fermata per otto giorni mentre la flotta di M. de Vaudreuil veniva approntata. Abbiamo cominciato la marcia il 4 e il 10 siamo giunti a Providence, dove la nostra sosta si è prolungata fino a che la flotta non fu pronta per prenderci a bordo. Ho approfittato di questa pausa per andare a Newport, che dista solo dieci leghe da Providence, per far visita agli amici che ho lì e prender congedo da loro.

Abbiamo lasciato Providence il giorno 4 e siamo arrivati qui il 6, ci siamo imbarcati tutti in una sola volta. Io ero sul “Brave”, settantaquattro cannoni, con il Conte de Deux-Ponts, e le nostre tre prime compagnie. Il Cavaliere d’Amblimont è il comandante della nave; costui si è comportato molto male nell’azione del 12 aprile; era scappato via senza obbedire ai segnali, e quando M. de Bougainville lo interrogò, chiedendogli ragione di una condotta tanto irregolare, rispose che “poiché la flotta era perduta, era meglio salvare almeno una nave per il re”. È un uomo amabile, molto corretto, e ha una buona nave. Io sono ben acquartierato, e lui fa servire una buona tavola. È tutto ciò di cui io ho bisogno, non lo giudico quanto a coraggio. Sembra certo che siamo diretti al Capo, sotto il comando di Don Galvez; si cercherà di certo di tentare un assedio in Giamaica, quando quello di Gibilterra, che ormai si protrae da cinque anni, si risolverà, con una vittoria o una sconfitta; si deciderà dopo luglio se anche noi parteciperemo all’assalto in Giamaica, è probabile che il rientro in Francia dipenda da tale decisione. Una persona degna di fede, e in posizione tale da conoscere lo stato delle cose, mi assicura che non rimarremo a lungo nelle Indie Occidentali, e che saremo di certo in Francia la prossima estate.

Non sappiamo ancora se gli Inglesi hanno evacuato Charleston. Ti potrebbe sembrare molto singolare; è strano che, avendo un’armata a sole dieci leghe da lì, noi si abbia certezza di un evento tanto importante per noi. Il fatto è che in questo paese le comunicazioni sono così lente e incerte che nella maggior parte dei casi le notizie ci arrivano tramite la “New York Gazette”. Un espresso percorre, al massimo, otto leghe al giorno, quando potrebbe farne dodici o tredici; ma forse l’errore è nell’organizzazione.

C’è molto da dire sull’evacuazione di New York; si dice che gli Inglesi stessi ne parlino; io non credo una sola parola di tutto ciò. La resa di tale posizione potrebbe avere un peso rilevante nel trattato di pace.

M. de Rochambeau ci ha lasciati a Providence, l’intero contingente lo rimpiange, e con ragione. È andato a Philadelphia, dove si è imbarcato sulla fregata “La Gloire”. Gli ho consegnata una lettera uguale a questa, che riceverete simultaneamente. Questa partirà con la fregata “Iris”. Il Barone de Viomesnil è ora a capo dell’armata, sarà lui a portarci nelle Indie Occidentali; là giunto, ci lascerà appena arrivato, per tornare in Francia.

Vi ho scritto nella mia ultima lettera che il Duca di Lauzun rimarrà in America con la sua legione. Pensavo che avremmo tolto i nostri mezzi di assedio, ma questa decisione è cambiata; resteranno a Baltimore, dove già ora si trovano con quattrocento uomini distaccati da differenti reggimenti, e un numero all’incirca equivalente di malati, che saranno di nuovo in buona salute in primavera. Fa in tutto mille quattrocento uomini sotto il comando di M. de Lauzun, che probabilmente non avrà altro da fare se non aspettare che la pace sia conclusa. Il Duca e la sua legione sono acquartierati a Wilmington, nove leghe a Sud di Philadelphia.

Non posso dirvi, mio caro padre, quanto sia affezionato al Duca de Lauzun, e quanto mi piaccia; è l’anima più nobile e giusta che io conosca. Fra gli effetti personali lasciati, tutte cose abbandonate che lui aveva raccolto, c’erano alcuni oggetti per me, di cui avevo necessità e che in parte gli avevo chiesto di portarmi. Non ha mai voluto dirmi quanto costassero, mi ha sempre risposto che erano solo bazzecole, non valeva la pena di parlarne. Non finirei mai, se dovessi raccontarvi tutte le sue premure e gentilezze nei miei confronti.

L’intera armata è seccata di dover andare nelle Indie Occidentali, io stesso non ne sono affatto entusiasta. Abbiamo assistito alla partenza di M. de Rochambeau con tristezza, tutti noi avremmo voluto continuare ad essere sotto il suo comando. Si dovranno avere gli stessi sentimenti per il Barone di Viomesnil. Per quanto mi riguarda, personalmente non posso che dirmi soddisfatto; il Barone mi ha sempre trattato con speciale riguardo e cortesia. È impulsivo e ha reazioni rapide; non ha il prezioso sangue freddo di M. de Rochambeau, il solo uomo in grado di comandarci qui, e di mantenere quella perfetta armonia che regnava fra due nazioni così diverse quanto a condotta, principi morali e lingua, e che, a pelle, non hanno simpatia l’una per l’altra. Non ci sono mai stati litigi fra le due armate durante tutto il tempo in cui siamo stati insieme; però ci sono stati spesso motivi di lamentela da parte nostra. I nostri alleati non si sono sempre comportati bene nei nostri confronti, e il tempo che abbiamo speso con loro non ci ha portati a stimarli. Lo stesso M. de Rochambeau non sempre è stato trattato bene, ma nonostante ciò ha sempre mantenuto una condotta uniforme. Il suo esempio ha imposto all’armata di fare lo stesso, gli ordini netti che impartiva trattenevano ciascuno di noi e rinforzavano quel raro grado di disciplina che era ammirato da tutti coloro che ne fossero testimoni, Americani e Inglesi. Il comportamento saggio, prudente e semplice di M. de Rochambeau è stato più efficace, per conciliare gli Americani, di quanto non avrebbero mai potuto ottenere le vittorie riportate in quattro battaglie.

La nostra flotta a Boston è formata da tredici navi, di cui allego l’elenco… Salperanno non appena il vento lo permetterà. La flotta Inglese, di ventitré velieri, ha lasciato New York in due divisioni; la prima, dodici navi sotto il comando dell’Ammiraglio Pigott, è partita il 27 ottobre, la seconda, undici navi, è uscita dal porto il 21 di questo mese, così si dice. Sta in agguato per catturarci, o è in viaggio per trasportare la guarnigione di Charleston nelle Indie Occidentali? Non lo sappiamo, ma il tempo chiarirà questo mistero.

Boston, 21 dicembre 1782.

Non si sa se Charleston sia stata evacuata; una gazzetta di Philadelphia, che è appena arrivata, dice che gli Inglesi stanno costruendo due nuove ridotte laggiù, e che il segnale di resa che avevano richiesto, e che si supponeva fosse un segno sicuro dell’evacuazione, è stato ritirato, e l’evacuazione non è avvenuta.

Noi ci imbarcheremo tutti questa sera; le navi sono pronte, e se il vento sarà favorevole salperemo domattina. Non appena avremo raggiunto le Isole delle Indie Occidentali vi manderò mie notizie, mio caro padre, e avrò il piacere di darvi certezza della mia rispettosa affezione.

1783

Alla fine della campagna americana, dopo la capitolazione degli inglesi, i soldati delle forze francesi non furono riportati subito in Europa, ma dovettero attendere fino alla firma del trattato di pace. Fersen trascorse tale periodo in Venezuela, a Porto Cabello. 

Porto-Cabello, marzo 1783 [alla sorella Sophie]

Sono sfinito dall’attesa delle vostre lettere. Sono il solo motivo di piacere che ho in questo posto terribile. Qui ci annoiamo da morire, siamo smagriti, rinsecchiti, diventiamo vecchi e gialli con tutto questo caldo. Non c’è nessuna risorsa, in questo putrido buco, non c’è la possibilità di soddisfare uno solo dei cinque sensi che sono stati dati all’uomo perché se ne possa servire. Non si incontrano che neri – non un singolo bianco, da nessuna parte. Non è un posto per uomini, qui possono vivere solo tigri, orsi e alligatori. Abbiamo sentito che Caracas, a trentasei leghe da qui, è una bella città, con vita di società e donnine allegre che non hanno altro di nero, se non gli occhi. Spero di poterci andare fra pochi giorni, e vedere di persona. Se la guerra continua, ho deciso che rimarrò qui. Se invece finirà, me ne andrò, ma anche in questo caso spero di poter rimanere nell’esercito francese. Forse potrei restare come colonnello proprietario di un reggimento [tale posizione si comperava]. Non ditelo a nessuno, per ora. Sono, comunque, molto contento: tutti mi trattano bene, qualcuno per educazione, altri per affetto. Quello che mi manca per essere del tutto felice è di potervi baciare. Domani, con Deux-Ponts e Dubourg, partiamo per Caracas. Staremo via un paio di settimane. Al mio ritorno, potrò magari sentire la notizia della firma del trattato di pace.

Le truppe francesi fecero ritorno in Francia nel giugno 1783. Lì un ordine di Gustav III ingiunse al Conte di accompagnarlo durante il viaggio intrapreso in Germania, Italia e Francia. Solo alla fine del 1784 il Conte Fersen poté far ritorno in Svezia e rivedere i famigliari.La campagna in America gli aveva fruttato una pensione, che pochi anni dopo, all’inizio della rivoluzione francese, gli sarebbe stata ridotta di un terzo e infine revocata, un avanzamento di grado nell’esercito svedese, il posto di colonnello proprietario del Royal Suédois, in parte donatogli dal re di Francia, e che avrebbe dovuto perdere alla vigilia della fuga dei reali conclusasi a Varennes, e la croce dell’Ordine di Cincinnati, decorazione che non poté mai portare, perché Gustav III non permetteva che gli ufficiali del suo regno sfoggiassero decorazioni conferite da un repubblica.


Fonti:

  1. Diary and Correspondence of Count Axel Fersen, relating to the Court of France. Translated by Katharine Prescott Wermeley. Illustrated with portraits from the original. New York Brentano’s Publishers 1902.
  2. De Heidestam O.G. The lettres of Marie Antoinette, Fersen & Barnave. John Lane the Bodley Head Limited, London. 1926

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