La predizione del suo futuro esilio e profezia del novecento il secolo degli esiliati per motivi politici. La virtù della verità che è valore di libertà.
La profezia del ‘900, il secolo dei dissidenti
Tu lascerai ogne cosa diletta
Paradiso XVII, 55-60
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.
Cacciaguida fa la sua profezia e predice a Dante l’esilio futuro. Ma la profezia non è tale: Dante in esilio ci sta già da tempo; questa è solo l’amara descrizione di quanto egli sta ormai vivendo. Però quei versi ci colpiscono, soprattutto oggi, che siamo reduci dal novecento, il secolo breve che è stato anche il secolo degli esiliati. Dante ha lasciato Firenze per motivi politici esattamente come tanti nel secolo scorso lasciarono Germania, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Russia, Austria, persino l’Italia e presero la strada dell’esilio, verso un futuro ignoto, contando unicamente sulla benevolenza di chi li avrebbe accolti. Qui Dante è davvero profetico, perché non parla solo di sé ma di tutti gli esiliati, anche di quelli odierni che da ogni angolo del mondo, in fuga dalla loro terra divenuta matrigna, cercano un rifugio più sicuro. Lasciamo parlare Dante:
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la quale tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.Paradiso XVII, 61-69
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
L’esilio è duro ma ancor più penosa sarà la compagnia degli altri fuoriusciti che gli si rivolteranno contro; però ben presto saranno loro e non Dante ad avere il capo rosso di sangue. Qui il Poeta si riferisce al suo contrasto coi compagni che lo trattano da traditore, perché si è dichiarato contrario alla loro idea di tentare il rientro in patria con la forza. Un proposito dissennato per cui sarà onorevole per Dante “fare per sé stesso”, ossia abbandonare il loro partito. Quando qui si parla della “compagniamalvagia e scempia”, ci si trova di fronte alla domanda di quale sia il ruolo dell’intellettuale nella società. Deve starsene “per sé stesso” o vivere e partecipare nella società di cui fa parte? E se vi partecipa, deve farsi gregario umile, curando solo il suo personale tornaconto, o “farsi parte per sé stesso” ossia mantenere la propria indipendenza pur partecipando al gruppo? La questione e aperta.
Il valore della verità
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
Paradiso XVII, 115-117
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
L’incontro con Cacciaguida sta finendo e Dante, che ha appreso le molte vicissitudini che l’attendono, è dubbioso e chiede all’ anima virtuosa e sapiente dell’avo, come si dovrà comportare nel suo peregrinare da esiliato e se dovrà o meno riferire dettagliatamente quanto visto nel suo viaggio ultraterreno, poiché questo potrebbe risultare sgradito a tanti. Cacciaguida è talmente felice di sentirsi porre questa domanda che la luce di cui è avvolto aumenta e prontamente risponde:
ma nodimen, rimossa ogne menzogna,
Paradiso XVII, 117-119
tutta la tua visȉon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Qui abbiamo un altro espediente letterario, perché con queste parole Dante incoraggia se stesso a dire la verità, sempre e comunque, senza curarsi di coloro che possono da essa sentirsi feriti, poiché alla fine essi stessi ne trarranno giovamento:
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.Questo tuo grido farà come vento,
Paradiso XVII, 130-135
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Grande questione è la verità, chi può dire di possederla? Chi può dire di avere il coraggio di affermarla sempre e comunque? Dante non si pone il problema, si sente sostenuto dalla sua profonda fede e attribuisce a se stesso una missione profetica e salvifica. In tanti si sono attribuiti questa forza, anche se poi vennero puniti dalla storia. Non sarà questo il destino di Dante, il cui grido sarà come il forte vento che colpisce con maggior violenza le cime più alte, il che “non fa d’onor poco argomento”. Colpisce ma non stupisce il senso di queste parole, in quanto la narrazione dantesca è il perfetto adeguamento della formula con cui San Tommaso fissa la definizione di verità: “Adaequatio rei et intellectus”. Solo la verità può operare tale unità; senza di lei il pensiero oscilla tra esaltazione e cinismo, con lei invece c’è libertà e liberazione. Ricordiamoci le parole di congedo che Virgilio rivolge a Dante alla sommità del monte del Purgatorio, il luogo dove è posto l’ingresso del Paradiso:
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
Purgatorio XXVII, 130-141
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio”.
Non aspettarti il mio consenso, segui l’impeto della tua libertà, sei ormai padrone di te stesso.
Sono le stesse parole riportate da Giovanni nel suo Vangelo:
Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.
Giovanni 8, 31-42
Anche su queste parole c’è da meditare… e a lungo