La “gente nuova” che ha corrotto Firenze e la speranza tradita di una guida che sappia fermare il declino
La gente nuova e i sùbiti guadagni
Paradiso XIV, 40-42
Orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni
Si ripropone qui, ampliandone il contesto, quanto già espresso nel sedicesimo canto dell’Inferno. Dante riprende il tema della modestia, dell’unità e del comportamento dei fiorentini di un tempo allargando il discorso dall’ambito famigliare a quello cittadino e dando la misura di quanto sia cambiata la città dopo che è scivolata nel degrado civile e morale, a causa dell’ingresso di forestieri che ne hanno corrotto i costumi e della smodata dedizione dei fiorentini ai commerci e ai facili guadagni. Cose esecrabili per la morale cristiana. Ma chi è questa “gente nuova”contro cui Dante si scaglia? Qui un po’ ci meravigliamo per l’animosità del Poeta, perché questa “gente nuova” altro non sono che gli inurbati che vengono dai vicini contadi e che hanno, coi loro comportamenti, contaminato la “pura” Firenze di un tempo:
sempre la confusion de le persone
Paradiso XIV, 67-68
Principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone
In effetti c’è da essere meravigliati poiché il Poeta qui tradisce i soliti pregiudizi del cittadino verso chi vien da fuori, vedendo in essi gli esponenti della nuova mentalità mercantile, dediti solo al profitto perché mossi da invidia, avarizia e superbia. Ci si può pure meravigliare, ma volendo vedere ci sono precedenti illustri, dato che il richiamo alla commistione delle genti, come fattore di corruzione, è già ben delineato nell’ideale di Platone e della sua Repubblica. Non è razzismo spicciolo quello di Dante, ciò che egli condanna è l’avidità di guadagno e di potere che attecchisce in una città quand’essa cresce e passa da una condizione aulica, rurale e artigianale, a quella industriale. Allora si forma un nuovo tessuto sociale che genera disuguaglianze. Il Poeta sa bene che il mutamento è frutto di un naturale ed inevitabile progresso, cui s’accompagna benessere e ricchezza, ma anche bassi istinti, soprattutto se in questa trasformazione sociale manca una guida. Papa e Imperatore non riescono a frenare il declino e ad indirizzare verso la giustizia terrena, né tanto meno verso la felicità celeste. L’impero decade e non garantisce né ordine né pace, uniche condizioni in cui l’uomo riesce a sviluppare le sue doti migliori. Ci ha provato Arrigo VII di Lussemburgo nel suo breve regno (appena un anno dal 1312 al 1313) a rafforzare la causa imperiale, nell’Italia devastata dalle lotte intestine tra Guelfi e Ghibellini, incontrando però la salda opposizione di Papa Clemente V e di Filippo IV di Francia, nonché di Roberto d’Angiò, re di Napoli, ed ha fallito (Arrigo muore a Buonconvento, vicino a Siena, nell’agosto 1313 forse di malaria o forse di veleno). Ogni speranza è quindi rimandata a non si sa quando.